Due libri – fra gli altri – sul Titanic, in occasione del centenario della tragedia. Lo spettro del ghiaccio. Vite perdute sul Titanic (Einaudi) è un bel lavoro di Richard Davenport-Hines, storico e scrittore britannico (peraltro biografo di Auden) che prende il suo racconto da lontano, dai ghiacciai della Groenlandia, laddove Donatello Bellomo, giornalista e storico della navigazione, s’incarica in Titanic, L’altra storia (Mursia) di scrivere una sorta di inchiesta per fare il punto sulle responsabilità di chi mandò a picco quello che doveva essere il vanto della compagnia inglese “White Star Line”, esempio ormai classico dell’arroganza e dell’avidità del capitalismo otto-novecentesco.
Impresa fallimentare ma a suo modo epica perché catastrofica, quella del Titanic, storia nota a tutti da quando il film che lanciò definitivamente Leonardo Di Caprio e la splendida Kate Winslet abbacinò decine di milioni di adolescenti anche di età avanzata costringendoli a un uso compulsivo e assai dispendioso di fazzoletti. Il fatto meritava una sua narrazione popolare e poco importa che siano una minoranza i fortunati conoscitori del Sinking Of The Titanic di Gavin Bryars, opera “aperta” di un musicista tanto geniale quanto inclassificabile.
Torniamo al lavoro di Davenport-Hines, il cui incipit è indicativo dell’ottima presa narrativa che può vantare: “Non ci furono testimoni. Non aveva l’aria di un evento storico. Un grosso blocco di ghiaccio si staccò da un ghiacciaio e con un potente boato precipitò in un fiordo. Probabilmente il ghiacciaio era lo Jakobshavn, origine della maggior parte degli iceberg piú imponenti del mondo e cent’anni fa anche quello che si spostava piú velocemente, procedendo di quasi venti metri al giorno dalla calotta glaciale verso la costa occidentale della Groenlandia”.
Quello di Davenport-Hines in realtà è un saggio di storia sociale che passa in rassegna una figurazione di mondi trasversali, di ricchi ambiziosi industriali, armatori, di banditi in prima classe che muovevano navi e mondi, di navigatori professionisti, steward, di emigranti confinati in terza classe, dove i banditi erano riconoscibili dalle pezze che gli coprivano sgraziatamente le pudende. Assieme a improvvidi cercatori di fortuna, contadini murati vivi dalla storia, ignari della reazionaria saggezza verghiana che li invitava a starsene a casa e vennero puniti non dal mare a loro ignoto ma dalla superbia e dall’avidità cialtrona dei padroni.
Su questi si concentra maggiormente il libro di Bellomo. Nelle quasi 50.000 tonnellate del transatlantico più lussuoso e lugubremente noto della storia, affondate assieme a 1500 persone, egli cerca soprattutto di ricostruire la trama di menzogne, di errori, di cinismo e superficialità che ne provocarono il tragico fallimento. Che a suo dire ebbe da fare con un problema strutturale: “la mancanza del doppio fondo sulle fiancate, presente invece sul Mauretania e sul Lusitania della compagnia rivale, la Cunard”. Cui bisogna aggiungere – prima di tutto il resto – almeno la penuria di scialuppe di salvataggio, previste a sufficienza nel progetto originario ed escluse nella realizzazione finale dal presidente della compagnia inglese, per ragioni insieme economiche ed estetiche (dove, udite udite, la bellezza era proprio questione di “classe”). Bellomo porta alla luce l’altra grande vittima di questa storia: la verità, che inchieste molto approssimative e reticenti avevano affondato assieme a quello che definisce “l’eroe negativo più idolatrato del Novecento”.
Michele Lupo
Richard Davenport-Hines
Lo spettro del ghiaccio. Vite perdute sul Titanic
Einaudi
2012, pagine 370
21 €
Donatello Bellomo
Titanic, l’altra storia
Ugo Mursia
2012, pagine 287
16 €