Tornerà utile nel disorientamento non privo di tratti disperati dell’odierno Occidente cercare risorse, modelli, immaginari dall’altra parte del mondo? Non sarebbe una novità. Già negli anni che sembrarono quelli dell’immaginazione al potere, fra militanza politica e pratiche underground non furono pochi coloro che cercarono in vari Orienti possibilità e declinazioni diverse dello stare al mondo: l’India, lo zen e guru d’ogni risma, spesso assai farlocchi, facevano da contraltare alla delirante attrazione per la Cina maoista.
Oggi, l’assai noto filosofo Byung-Chul Han, che alterna pari modo libri interessanti ad altri meno convincenti, ci offre spunti a mio modo di vedere stimolanti a partire da Shanzhai. Pensiero cinese e decreazione (Nottetempo).
Attraverso l’estetica e la parola Shanzhai, nata nelle piazze dell’elettronica pirata – cellulari soprattutto – , che indica il falso e la copia come modalità tipiche della creatività cinese (creatività paradossale se vista dall’Occidente perché smonta il mito dell’originalità in favore di un processo di de-creazione) il filosofo ci introduce a un mondo e a un modo di interpretarlo diverso da quelli cui siamo abituati.

Byung-Chul Han non vede in Shanzhai una modalità disonesta: la eleva invece a categoria filosofica, ben inscritta nella tradizione cinese. La copia, nel suo racconto, è un modo di trattare l’identità come processo piuttosto che come monolite. In Cina, imparare significa imitare; imitare significa onorare.
L’opera non muore nella riproduzione: vive, si stratifica, si trasforma. Se non fosse che Shanzhai, scrive l’autore, è il neologismo cinese per indicare il fake: e il fake e la copia non sono proprio la stessa cosa. La questione in realtà è scivolosa.
Problematizzazione – meritevole forse di un approfondimento – a parte, resta il principio estetico – che solo estetico evidentemente non è – della tradizione cinese, e in certi casi orientale tout court implicito in un orizzonte più ampio che riguarda l’essere visto nell’ottica differente e contrapposta di Oriente e Occidente.
Per la tradizione europea, da Kant in poi, l’essere è base stabile che garantisce il mondo; per il pensiero estremo-orientale è piuttosto un flusso. Il Tao non indica un punto d’origine, ma un attraversamento. Qui il vuoto buddista non è il nulla nichilistico che Hegel temeva, ma una condizione di apertura che permette la trasformazione continua. Questa apertura si manifesta anche in gesti sociali: Han ricorda funzionari-letterati che, riuniti attorno a un paesaggio di Wang Fu, lasciano versi e sigilli. La pittura diventa conversazione.
La pratica del copiare, allora, non è esercizio meccanico ma pratica collettiva di memoria e interpretazione: si studia l’opera imitando la mano del maestro per comprenderne il respiro.
Nel Giappone shintoista c’è un santuario che si rinnova ogni vent’anni: lo smontano, rifanno il legno, ripetono la forma. Sempre uguale e sempre nuovo. Per l’UNESCO è un paradosso: se lo ricostruisci non può essere autentico. Per Han, invece, è l’immagine perfetta di una cultura che non si aggrappa alla durata ma al gesto che si ripete.
La pittura cinese mette in pratica questa idea. Un dipinto non è un oggetto chiuso: è una superficie che accoglie sigilli, poesie, commenti. Collezionisti e studiosi aggiungono iscrizioni, l’opera si carica di voci successive e cambia volto con le dinastie.
Un Dong Yuan “Song” e un Dong Yuan “Ming” sono lo stesso nome percorso da mani diverse. Talvolta il falso diventa testimonianza più eloquente dell’originale: non un inganno, ma una tessera nella storia dell’immagine.
All’Occidente questi movimenti appaiono inquietanti. Hegel bollava i cinesi come “immorali” perché non reagivano scandalizzandosi davanti alla menzogna rivelata. Ma Han legge altrove: quella che a Hegel sembra agilità ingannevole è piuttosto la capacità di non fissare l’identità su un unico evento. L’originale come inizio assoluto è un’idea che il pensiero orientale non riconosce.
Eppure l’Occidente non è del tutto estraneo a questa pratica: pensiamo, dice Han, a Gauguin che rilegge Manet, a Van Gogh che reinventa Hiroshige. Anche qui la copia può essere atto d’amore. Solo che da noi ha dominato un certo culto della firma, dell’unicità.
Per Han, il valore dell’arte sta nella circolazione del senso, nella capacità dell’opera di farsi campo comune di aggiunte e riscritture. Quando l’imperatore Qianlong aggiunge la sua iscrizione — “È difficile essere un sovrano” — su un dipinto antico, non si assiste a un sacrilegio ma a una prosecuzione della vita dell’immagine.
Shanzhai ci sfida a ripensare il rapporto con l’originale: forse la vera eternità non sta nella durata ma nella capacità di trasformarsi. La copia non sminuisce: prolunga. Non cancella la paternità; la rende plurale. In questo senso, il falso non è un vuoto morale ma una pratica di cura: una maniera di tenere in circolo ciò che altrimenti sarebbe fissato, consumato, perduto.
Ecco, lo slittamento dall’estetica alla politica ossia l’abbraccio totale al fake qualche problema lo pone. Se ad esempio tornassimo alla Cina maoista di cui sopra intercetteremmo l’aspetto forse più debole della faccenda, certo quello più respingente: nelle ultime pagine del libro il maoismo – il comunismo cinese in generale – è assunto correttamente come esempio di variazione del marxismo: ora, se la pratica dello Shanzhai, come sostiene l’autore, richiama una modalità giocosa, dadaista persino (le copie stravaganti delle grandi marche di cellulari, la parodia del détournment, le pratiche dal basso), applicare la formula alla prassi politica inquieta non poco: nel maoismo nulla è apparso troppo divertente, e, soprattutto, nella pratica oggidiana delle grandi potenze la fabbricazione mediatica di un mondo immaginario è l’arma più incisiva per sottomettere quello “reale”. Secondo vecchio acquisito schema: il ’68 si è inverato in Berlusconi?
Libretto ricco di immagini, progetto grafico assai seducente.
Michele Lupo
Byung-Chul Han
Shanzhai
Pensiero cinese e decreazione
Traduzione di Simone Aglan-Buttazzi
Nottetempo
Collana Figure
2025, 112 pagine
13,90 €