Emily Brontë, Djuna Barnes, Sylvia Plath, Colette, Marina Cvetaeva, Virginia Woolf e Ingeborg Bachmann sono le scrittrici che hanno permesso a Lydie Salvayre, Premio Goncourt 2014, di diventare l’autrice che è oggi.
Questo lo si coglie attraverso la lettura di Sette donne (traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, Prehistorica Editore, 2025). Salvayre permette al lettore non solo di entrare nella vita, nelle opere e nell’immaginario di queste donne, ma infonde loro una nuova linfa, come possono e sanno fare gli scrittori. Con la sua immaginazione, con l’affetto e l’entusiasmo ne racconta i drammi esistenziali, i difetti, le qualità umane e letterarie.
Fin dalle prime pagine si capisce che l’intento della Salvayre è, però, un altro: capire se stessa e ciò che l’ha portata alla scrittura. Da ognuna di queste autrici la scrittrice francese ha tratto idee, modi di essere e di scrivere che nel tempo hanno formato la sua identità di scrittrice e di giovane donna.
Ecco, allora, che Sette donne diventa un libro in cui l’autrice viene a patti con ognuna di loro, mostrando il debito intellettuale che ha contratto. La Brontë le ha rivelato cosa sia (veramente) il Romanticismo – un insieme di sentimenti forti, profondi e intensi, perturbanti tanto da distruggere la vita di un essere umano – il Male, una vita a stretto contatto con una natura impervia e selvaggia, come quella di Cime tempestose.

Djuna Barnes le ha mostrato come avvicinarsi agli altri scrittori e al mondo dei critici, con la consapevolezza di dover seguire sempre la propria strada, di rimanere fedele alle proprie idee, al proprio immaginario, alla propria natura. E di dare il giusto peso ai giudizi degli altri. Ma le ha anche raccontato un’epoca in cui avrebbe voluto vivere: la Parigi degli anni Venti. Dove si incontravano scrittori diversi tra loro e circolavano idee nuove e accattivanti.
Grazie a Marina Cvetaeva e alle sue riflessioni sul ruolo dello scrittore all’interno della Società e dalla Storia, la giovane scrittrice ha compreso come un vero scrittore non debba piegare la propria scrittura alle continue controversie della Storia. Marina Cvetaeva sosteneva che «non bisogna dare alla Storia più importanza di quanto non meriti. Chi si conforma docilmente a ciò che avviene nel mondo, chi si piega a uno scopo che non gli appartiene, chi obbedisce come un animale domestico al padrone del momento non merita il nome di poeta».
Virginia Woolf l’ha indotta a pensare al ruolo del Patriarcato contro cui ogni scrittrice deve confrontarsi. E scontrarsi. La vita e le opere della Plath le hanno permesso di trovare il giusto equilibrio tra l’essere donna, scrittrice e il vivere nella «domestica prosaicità» quotidiana, per dirla con le parole di Woolf, fatta di piatti sporchi da lavare, lavatrici da fare, panni da stendere, bambini di cui occuparsi.
Le riflessioni di Ingeborg Bachmann l’hanno resa consapevole del valore che hanno le parole. E di come per uno scrittore l’uso del linguaggio non sia mai qualcosa di neutro. Perché intrise, alle volte, dalla barbarie della Storia. La Bachmann si chiede, infatti, come si possa usare di nuovo la lingua dei grandi scrittori tedeschi, dopo che sono diventate lo strumento della sopraffazione, del comando e della propaganda nazista.
Scrivere questi ritratti è stato un conforto per Lydie Salvayre che, in un momento di buio, è tornata a quei libri, scoperti in gioventù, che tanto l’hanno aiutata a crescere, a trovare la propria voce e a scrivere i suoi libri. Questi sette ritratti le hanno permesso di «prolungare la felicità» che provato quando li ha scovati, «inventare le loro vite, le loro opere, come credo faccia qualsiasi lettore» è stato poi un atto dovuto. Un modo per farle entrare, di nuovo, nella propria vita.
Da notare è il titolo: Sette donne e non Sette scrittrici perché per la scrittrice francese vivere e scrivere si fondono.
Questo libro, per Salvayre, non segna un nuovo inizio. Dopo diversi intensi romanzi la scrittrice si è dedicata a libri – ritratto, come quello del suo compagno, l’editore Bernard Wallet in BW (2009) e quello di Jimi Hendrix in Hymne (2011).
Attraverso le pagine si vede l’empatia, l’ironia e a tratti anche lo sguardo nudo e crudo di Lydie Salvayre – («ricordiamoci,» dice evocando i momenti di disperazione della Plath, «che il concetto magico di resilienza non è ancora stato inventato, né il metodo della terapia della luce e che tutte le persone depresse sono condannate» a sopportare la loro infelice vita).
Alle volte affiora anche un po’ di gelosa («darei la vita perché un ritmo così bello venisse da me», scrive a un certo punto). Ma il suo rimane lo sguardo giovane dell’appassionata lettrice che è stata.
Claudio Cherin
Lydie Salvayre
Sette donne
Traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala
Prehistorica Editore
Collana Ombre lunghe
2025, 232 pagine
18 €