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Voi siete qui: Biblioteca » Da Quodlibet “Miserabile miracolo” di Henri Michaux

9 Agosto 2025

Da Quodlibet “Miserabile miracolo” di Henri Michaux

Si potrebbe tirar su una discreta bibliografia di autori ottonovecenteschi alle prese con quelli che uno dei padri fondatori del moderno, Charles Baudelaire, definì Paradisi artificiali. Un aspetto ne accomuna spesso l’esperienza e il resoconto sulla pagina: un certo entusiasmo.

Tuttavia, la formula non è valida per tutti, a partire proprio dall’autore de Les Fleurs du mal, curioso ma sospettoso verso la possibilità di fare dell’incendio percettivo procurato dall’oppio e dall’hashish qualcosa in senso artistico – la traduzione in parole.

Di certo fra i più critici, almeno inizialmente, annoveriamo il poeta e viaggiatore Henri Michaux, che fu però per anni sufficientemente sedotto dall’esperienza psichedelica da volerla ripetere in molte occasioni.

Nelle pagine di Miserabile Miracolo. La Mescalina – ora in libreria grazie a Quodlibet – ritorna il suo costante bisogno di esplorare mondi e sperimentare modi nuovi di pensarli, scoprire fino a che punto possa spingersi la mente umana, eludere i limiti della ragione.

Terribilmente attratto dalle vertigini della conoscenza, Michaux è tuttavia assai perplesso, diffidente. Consideriamo oltretutto che ha superato i cinquant’anni. Ma la sregolatezza dalle categorie a priori gli interessa in quanto tale, è un modo per misurare le possibilità della mente. E provare a uscirne fuori, forse in cerca di una qualche trascendenza.

Questo spiega perché il poeta belga prosegua con i suoi esperimenti pur non ricavandone i piaceri estatici narrati da altri poeti e scrittori. Per diverso tempo è drastico: “La mescalina diminuisce l’immaginazione. Castra, desensualizza l’immagine. Rende le immagini al cento per cento pure. Esperimenti di laboratorio”.

Cerca miracoli (“Mi ero preparato ad ammirare. Ero andato fiducioso”), ma quello che trova con la mescalina gli appare miserabile. Tutto è troppo veloce, astratto. Le visioni mutano senza posa. “Vedo un solco. Solco con graffiature piccole, precipitose, trasversali. E dentro, un fluido, mercuriale per il bagliore, torrenziale. E per il ritmo, elettrico per la velocità.”

Gli si aprono scene davanti agli occhi, come fosse un film, e a un certo punto descrive lo spettacolo come “perfettamente cretino”. Pare di assistere a un conflitto fra la necessità di un controllo (non fine a sé stesso, che Michaux l’altrove, qualunque cosa sia, lo cerca e lo sobilla) e la tempesta di visioni illogiche che quel controllo fanno saltare continuamente (“selvaggiamente animate nella mia testa”).

Michaux preferirebbe avere visioni senza ausilio di droghe ma nei fatti i suoi esperimenti vanno avanti per anni. Troppo è il desiderio di avvicinare l’impossibile: così, il piano col tempo consente all’algido Michaux di cedere alla forza della mescalina, di riconoscere che lo sta conducendo “ben oltre tutto ciò che ho conosciuto”. Lame di fuoco, esplosioni di cristalli, iperfetazioni di colori, uomini piccoli come lillipuziani: il catalogo è lungo e non più così disprezzabile.

E c’è il testo. Che fa deflagrare i generi, le aspettative del lettore, la sua predisposizione a un organismo ordinato, riconoscibile. Non per mera scelta estetica: l’esperienza di Michaux, armata contro ogni pretesa di ragionevolezza, finisce per scardinare non solo le categorie della mente ma anche quelle del linguaggio.

Tenta di registrarne gli effetti in una scrittura – e una serie di disegni, improvvisi scarabocchi (“un movimento automatico e cieco”) – in presa diretta, nell’illusione di tradurre gli effetti delle sue sedute. A tratti il testo di Michaux pare inconsapevolmente anticipare di decenni quella che nella poesia di ricerca viene definita “prosa in prosa” – a partire dalla proliferazione del soggetto in miriadi di soluzioni, sia nel senso delle istanze psicologiche che si affacciano e si dileguano istantaneamente (ossia in quello dei frammenti in cui si scompone e moltiplica l’io scrivente), sia nell’altro, per così dire estetico, del gesto-scrittura.

Così trovi il segno grafico, scarabocchio o naturalistico tentativo di rappresentare le telluriche esplosioni della mente, intervallato alle prose liberamente mimetiche della visione, e alle riflessioni che ne conseguono.

Ma sopratutto – ecco gli elementi forse più interessanti – una disseminazione diseguale di parole nello spazio della pagina, tracce verticali come di crepe che fratturano corpi, pietre, scheletri, separati da segmenti irregolari ma spesso paralleli, e certi microtesti scritti con mano tremolante che si sfagliano in segni pre-alfabetici.

Perché è poi questo l’ibrido, inclassificabile non-testo che abbiamo davanti, quello di uno studioso e poeta insieme, una mente lucidissima, che usa droghe psichedeliche (avrebbe in seguito provato la cannabis, l’LSD, la psilocibina) per mettere alla prova ontogeneticamente una vicenda evolutiva di milioni di anni per sondarne la storia segreta, i pattern, gli abbagli, le deviazioni. Perché della mente stessa che osserva, dei suoi sconfinamenti, e dell’impossibile lingua che prova a dire tutto ciò: questo, prima e dopo la mescalina, era stata l’ossessione di Michaux.

L’opera è tradotta da Claudio Rugafiori ed è seguita da un breve saggio di Carlo Mazza Galanti che ben ricostruisce l’esperienza di Michaux nella cornice più ampia di scrittori alle prese con la psichedelia.

Michele Lupo

Henri Michaux
Miserabile miracolo
La mescalina

Traduzione di Claudio Rugafiori
A cura e con un saggio di Carlo Mazza Galanti
Quodlibet
2025, 230 pagine
16 €

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