In un libro che ha il solo difetto di essere forse un po’ indulgente con l’argomento che tratta, L’estetica del Pop, Andrea Mecacci, che insegna Estetica all’Università di Firenze, restituisce in maniera definitiva la storia e il senso del fenomeno pop, che, come vedremo, fenomeno non è. E non è solo una voce della storia dell’arte. L’autore inizia il suo saggio, molto ben scritto, concertato sia sul piano della documentazione che in quello insidioso dell’interpretazione critica, ricordando il viaggio che Andy Warhol intraprese nel 1963 partendo da New York in direzione Los Angeles dentro una Ford station wagon. Sta costruendo la sua immagine, l’algido biondo, la sua storia, interna al mood americano di quegli anni (perciò stesso internazionale come nessun’altra a prescindere dall’opinione che ognuno di noi può avere sull’argomento, o sull’indice di gradimento dello stesso) ed è lui stesso a ricordare anni dopo: “Più ci dirigevamo a ovest, più sull’autostrada ogni cosa appariva pop. Improvvisamente sentivamo di far parte di qualcosa, perché anche se il pop era ovunque, per noi era la nuova arte. Una volta che diventavi pop non potevi più guardare un’insegna allo stesso modo. Una volta che pensavi pop non vedevi più l’America come prima”
Un’accettazione estatica del presente, intanto. Il pop costituisce premessa del postmoderno, lo anticipa, lo prevede e quasi lo ingloba (o ne è inglobato, questo chiarissimo non è, non per difetto dello studio di Mecacci che si situa come punto avanzatissimo e terminale della ricerca sull’argomento, ma per la sua dimensione verrebbe da dire totalizzante, invasiva e onnivora). Nel pop sembra difficile separare consumo e comunicazione – quasi una paradossale sublimazione del presente, giacché quel presente (americano e perciò stesso mondiale) è consumo e comunicazione (e, aggiungerei, spettacolarizzazione). Salta definitivamente l’aura dell’opera d’arte, e con essa qualsiasi pretesa di profondità, di autenticità, per non dire che si abbandona con passo fin troppo disinvolto e compiaciuto (ma questa è solo l’opinione di chi scrive) ogni pretesa di portata etica e sociale del gesto. Le cose non vanno criticate ma amate, direbbe Warhol, nel senso che si dismette l’idea di provare a cambiarle: per questo è difficile pensare che il pop non sia ideologico, assumendo in pieno come fa la way of life dell’America coeva. La società dello spettacolo in cui Guy Debord negli anni sessanta vedeva realizzarsi una nuova forma di dominio ancor più pericolosa delle precedenti, è pieno pop, sua dimensione d’elezione: arte musica spettacolo intrattenimento consumo ed esaltazione priva di conflitto di “ciò che è così com’è” scivolano una nell’altra sopra un piano orizzontale che tutto ingoia e metabolizza, con sovrana allegria, e dispettosa allergia per l’intenso, la lentezza, l’approfondimento.
Il pop pertanto è anche la fine del soggetto pensoso (romantico) che cerca una verità dell’io – e forse delle cose. L’io conta solo come fattore spettacolare, una messinscena di sé, fino a Madonna e Michael Jackson, un io che non ha nulla del diverso, che sia il filosofo appartato, o l’antagonista sociale, e tutto della realizzazione massima dei modelli del mondo così com’è, quello della società di massa, come usava dire un tempo, che forse è ancora il nostro e forse no. Piaccia o meno, ovvio che con queste promesse, di tutto potrebbero fare a meno le future generazioni per capire un po’ dell’ultimo secolo, tranne che del pop. Il libro di Mecacci questo lo mostra con chiarezza ed eccellente scrittura.
Michele Lupo
Andrea Mecacci
L’estetica del pop
Donzelli
2011; pp. VIII-200
24,50 €