Ha osservato Guido Bosticco, docente di scrittura creativa all’Università di Pavia: “Scrivere di viaggio è attenzione agli altri, alle persone che abitano i luoghi. Poi è rispetto per ciò che si comprende e ciò che non si comprende. E infine è cura e considerazione del lettore, che vuole avere il piacere di essere là dove non è fisicamente”.
Queste caratteristiche (sulle quali mi sento di concordare, in quanto – si parva licet… – narratore di viaggi io stesso) sono pienamente rappresentate dal bel libro del giovane (n. 1984) inglese Nick Hunt “Camminando fra i boschi e l’acqua” (edito da Neri Pozza nella collana Il cammello battriano).
Il titolo costituisce, di per sé, un richiamo esplicito alla celebre trilogia di quello che è probabilmente il maggior travel writer dell’intera letteratura contemporanea, Patrick Leigh Fermor (anche lui britannico, per inciso): Tempo di regali, Fra i boschi e l’acqua, La strada interrotta (tutti pubblicati da Adelphi).

Suggestionato dalla magnifica prosa del suo conterraneo, Hunt decide di ricalcarne l’intero cammino (“Da Hoek van Holland al Corno d’Oro”, recita il sottotitolo dell’edizione italiana), partendo esattamente lo stesso giorno di 78 anni dopo (l’8 dicembre 2011) e avendo come unico viatico i libri di “Paddy”.
Hunt si rivela, fin dalle prime battute, scrittore di grande potenza evocativa: “C’era un insolito cielo nero sopra Londra, una luna perfetta che si stagliava aldilà delle luci dei lampioni; poter vedere oltre la città, anche se solo in alto, la rendeva la notte ideale per la partenza” esordisce il racconto.
Ma questa forza di espressione si mantiene intatta fino all’explicit, 342 pagine dopo:
La sirena di una nave suonò a lungo e un mercantile attraversò borbottando lo stretto, proveniente dal Mar Nero e diretto verso il Mar di Marmara e il Mediterraneo. Le moschee si illuminarono dolcemente come larve mentre il sole tramontava sull’Europa. Nel blu sempre più cupo gli spigoli e le linee più nette sbiadirono impercettibilmente, fondendosi con l’aria come se già si ritraessero nella memoria. Alle grida dei gabbiani si unirono i richiami alla preghiera dai minareti, il suono si dilatava allargandosi sulla città, unendo i continenti. Sciacquio di onde oleose. Asfalto tiepido sotto i piedi. Perfettamente soddisfatto, senza alcun posto in cui andare, mi fermai. Semplicemente, mi fermai”.
Corre l’obbligo di sottolineare, qui, l’ottimo lavoro svolto dalla traduttrice Laura Prandino.
La lentezza del camminare
Se lo stile di Hunt è all’altezza del modello che si era prefissato, il paesaggio – naturale e umano – che egli incontra appare, in molti punti, mutatissimo: una guerra devastante, un’antropizzazione spesso dissennata e quasi 50 anni di regimi comunisti non sono trascorsi invano, sui territori delle otto nazioni attraversate.
Ma in certi angoli particolari, in alcune bolle di passato miracolosamente rimaste a galla, il lettore ritrova, con un piacevole senso di agnizione, le medesime atmosfere già assaporate nei volumi di Fermor.
Anche Hunt va a piedi – tranne che per qualche sporadico passaggio, accettato controvoglia, e per un tratto percorso in bicicletta a causa di una dolorosa tendinite. La lentezza del camminare (e del pedalare) gli consente di cogliere dettagli che lo spostarsi tecnologico schiaccia e dissolve inesorabilmente nell’indistinto della velocità.
Come Paddy si era imbattuto in entusiasti neo-adepti del nazismo, così il suo emulo incontra i nuovi nazionalismi che si sono diffusi nell’area ex comunista, anche a conseguenza dei tragici errori “formativi” commessi da quell’ideologia (d’altronde, pure da noi i sostenitori sfegatati di un certo felputo – più che felpato – individuo sono spesso e volentieri ex militanti PCI che hanno cambiato il colore della divisa: non la mentalità, però). Ma incontra anche tante persone – non solo artisti o intellettuali – che a quel dilagare cercano di opporsi come possono.
Quando il dolore alla caviglia lo costringe a ricorrere alle cure mediche, si sorprende e compiace che queste (“un ciclo di trattamento a ultrasuoni e persino una seduta di agopuntura, un tutore per la caviglia e solette ortopediche”) gli vengano offerte gratuitamente, in virtù della sua cittadinanza europea. Alla faccia dei “brexitari” inglesi, che non hanno ancora focalizzato bene le conseguenze negative (per loro stessi, più che per gli altri) della propria infausta scelta.
Ci si potrebbe aspettare che un viaggio simile comporti chissà quali rischi di aggressione, da parte di umani e/o di bestie feroci. In realtà, l’unico pericolo reale il nostro viandante lo corre imbattendosi nel branco di cani inselvatichiti che popola una discarica della Transilvania romena.
Qualche volta in preda allo sconforto, più spesso all’euforia che le nuove esperienze suscitano, il narratore ci conduce con sé, quasi passo a passo, per tutte le migliaia di chilometri macinate, fino al momento in cui getta via – materialmente e simbolicamente – gli scarponi, ormai inutili e inservibili. Con lui percorriamo le strade, i sentieri, i campi, i boschi, le montagne e i litorali che costellano il suo itinerario. Con lui facciamo la conoscenza di tante persone, più o meno piacevoli ma sempre interessanti.
Alla fine, il suo viaggio entra a far parte della nostra memoria e quindi di noi, arricchendoci non poco. Ecco la ragione – o meglio, una delle ragioni – per cui questo libro va assolutamente letto.
Marco Grassano
Nick Hunt
Camminando fra i boschi e l’acqua
Traduzione di Laura Prandino
Neri Pozza
2020, 368 pagine
19 €