Wadi Quelt
I tassisti mediorientali hanno un’insana passione per la pelle e il pelo. Anche la Mercedes nera anni ’70 che ci attende nel soleggiato parcheggio dei taxi di Gerusalemme Est non è da meno. Con un gruppo di amici abbiamo deciso di intraprendere una cosiddetta avventura controllata “Lonely Planet”, ovvero un escursione in cui sai bene che non morirai affogato o sbranato da una qualche strana bestia feroce, ma che sarà sicuramente fonte di eccitazione, gioia e avventura.
Attraverseremo il Wadi Quelt a piedi fino ad arrivare a Gerico, la più antica città del mondo. Nessuno di noi è amante delle camminate, anzi, direi che siamo tutti figli (grati) delle città. Ma questa volta, di comune accordo, si è deciso di provarci comunque; non ci dimentichiamo che in questa regione del mondo, spesso, si fanno cose irrazionali ed è l’istinto più che la ragione la guida primaria. E poi siamo attratti dal fatto che per tutti noi è la prima volta che mettiamo piede nella West Bank (o Cisgiordania, o Territori Occupati, o Palestina, scegliete voi). Il Wadi Quelt è un corso d’acqua, asciutto tutto l’anno fatta eccezione per la stagione delle piogge. Dicono si presenti più o meno come un lungo canyon. Il taxi ci molla dopo circa 25 minuti di corsa accanto a un grosso cartello marrone che dice “Al-Wadi Quelt”. Si comincia a camminare. Pochi passi dopo siamo già premiati; si apre una spettacolare vista sul Deserto di Giuda, bianco, calcareo, silenzioso. Macchie verdi qua e là. Il percorso vero e proprio comincia poco oltre, e durante la camminata il paesaggio si fa sempre più simile a quello di un canyon, con pareti alte, ripide e rocciose, vegetazione a tratti, oasi di acqua fresca e limpida.
Non c’è nessuno. Le uniche due persone che incontreremo in tutte le cinque ore di viaggio sono due militari israeliani a passeggio. A circa metà del percorso, i resti di un acquedotto romano. Per un italiano è strano vedere architetture arcinote a così tanti chilometri da casa (ma fa ancora più impressione, sempre in Israele, l’acquedotto sulla spiaggia di Cesarea). Pochi passi oltre, girato l’angolo, ecco la spettacolare visione del Monastero di San Giorgio, appollaiato (tutti i monasteri sono, per definizione, appollaiati) sul lato sinistro della parete del canyon. E’ stato costruito nel quinto secolo ampliando un piccolo oratorio messo su dagli eremiti che vivevano nel Wadi Quelt. Nonostante la sua posizione isolata (per usare un eufemismo) anch’esso ha vissuto in pieno la storia della regione, subendo invasioni, massacri, abbandoni. Ci fermiamo sotto un albero, al fresco, per bere e riposarci. Quando smettiamo di parlare, mi accorgo di quanto silenzio ci sia in questo posto. Alzando gli occhi riesco a intravedere le grotte scavate dagli eremiti, più di quindici secoli fa.
Ci sono delle croci disegnate qua e là sulle pareti, ad un altezza impressionante. Come nella Spianata delle Moschee, a Gerusalemme, ecco un altro posto in Palestina che mette a dura prova il mio convinto laicismo. Riprendiamo a camminare. Dopo alcuni chilometri, si intravede la fine del canyon e una luce rosa e leggera ci annuncia l’arrivo nella valle di Gerico. L’emergere in lontananza di una immensa pianura verde e lussureggiante, piena di colori delicati, che si stende sconfinata fino al Mar Morto, è deliziosamente in contrasto con la durezza del paesaggio roccioso da cui veniamo. Maledico il momento in cui ho scelto di portare una macchina fotografica compatta e non la mia reflex. Una mezz’ora dopo, come si dice in questi casi stanchi ma felici, facciamo il nostro ingresso trionfale a Gerico. Trionfale per modo di dire, nessuno pare accorgersi di noi. Ma è esattamente ciò che desideriamo, insieme al gusto luppolato di una bottiglia di Taybeh Beer (“the finest in the Middle East”), consumato nella piazzetta centrale.
Alessandro Pecci