Il Sahara è il più vasto deserto della terra. Ha una superficie di 8 milioni di chilometri quadrati e si estende dal Mar Rosso fino all’oceano Atlantico, per una lunghezza di 4 mila chilometri. Si chiama così dalla parola araba sahra, che significa “fulvo”, ossia del colore giallo intenso dell’arena. Ma il paesaggio non è tutto eguale. C’è l’hamada, vale a dire l’estensione di roccia a schegge lavorata dai venti. C’è il serir, costituito da strati di ciottoli e ghiaia. E c’è l’erg, con le tipiche dune ondulate. Date le dimensioni, gli accessi a questo sterminato regno del silenzio sono molteplici. Ma uno dei passaggi più singolari verso il mare di sabbia, che i Tuareg considerano il luogo creato da Dio per ritrovare l’anima, è attraverso la Tunisia. Qui infatti il distacco dal mondo che ci si lascia alle spalle viene preparato da alcune tappe d’avvicinamento, in grado di scolorire lentamente i ricordi e di preparare l’occhio e lo spirito a un’altra realtà.
Nella zona centrale del Paese, infatti, poco prima dell’arrivo nella fascia totalmente arida, sopravvivono ancora alcuni borghi berberi, ossia della popolazione indigena più antica. Il nome significa barbari, ma si tratta di un’etichetta appiccicata dagli invasori. Essi preferiscono chiamarsi “Imazighen”, ossia “uomini liberi”. La loro presenza compare già in alcune iscrizioni egizie di 5 mila anni or sono. Tuttavia conoscono come poche altre etnie un’infinita sequela di colonizzazioni a opera di fenici, romani, vandali, bizantini, arabi ed europei.
A volte, sotto la guida di capi riconosciuti come ad esempio Massinissa e Giugurta, riescono a resistere. Più spesso devono cedere le terre più fertili e ritirarsi sulle alture e nelle aree riarse. Molti acquisiscono la lingua imposta dagli stranieri e tra questi figurano personaggi di primo piano, come l’imperatore Settimio Severo, papa San Vittore, gli scrittori Tertulliano, Apuleio e Sant’Agostino. Nel distretto di Tataouine si incontra Chinini, che proprio secondo il celebre pensatore d’Ippona prende origine dalle genti di Canaan. Il villaggio, dove George Lucas gira varie scene della saga Guerre stellari, sorge tra due picchi montuosi per essere al riparo dalle incursioni.

La cima che lo sovrasta è inconfondibile perché, a causa dell’erosione, ha le fattezze d’un cammello accovacciato, la cui testa tra l’altro guarda proprio verso La Mecca. La vallata, invece, porta ancora i segni ben visibili del tratto di mare prosciugato da chissà quanto tempo. Le strutture più arcaiche, ubicate sul lato collinare, risalgono al XII secolo. Ovunque si scoprono tracce finalizzate alla custodia delle acque, il bene più prezioso in assoluto. Una delle preoccupazioni principali è creare sbarramenti con materiale litico per impedire l’erosione e trattenere il più a lungo possibile il dono delle intense ma rare precipitazioni. Lo scopo si ottiene con il sistema dei jessour, cioè argini in terra protetti da murature realizzate perpendicolarmente al flusso di scolo in wadi e burroni, altrimenti non sfruttabili dal punto di vista agricolo. Ogni sbarramento trattiene i sedimenti fini e lascia passare il liquido in eccesso attraverso lo sfioratore. Questo sistema idraulico connota tutto l’habitat, che risulta così rimodellato dall’azione antropica.

Egualmente tipiche sono le costruzioni chiamate ksour, ossia le strutture per il deposito e la conservazione del frumento. Ogni granaio è formato da un insieme di celle, dette ghorfas, disposte su uno o più piani e affacciate su un piazzola centrale. Il muro esterno è alto fino a dieci metri e non ha aperture, se si esclude quella d’accesso. Gli edifici sono intimamente legati al paesaggio d’intorno, perché realizzati con i materiali a portata di mano.

In essi gli antichi abitanti stoccano prodotti agricoli e anche altri oggetti di valore. E lì si ritrovavano per le transazioni commerciali. Si contano oltre centocinquanta silos di questo genere, eretti a partire dall’VIII secolo fino agli inizi del Novecento. Sono un vero e proprio patrimonio storico e architettonico tramandato di generazione in generazione. La peculiarità del luogo è che costituisce quasi uno ksour cittadella, intorno al quale si annoverano alloggi ancora abitati e facilmente individuabili perché ricoperti da intonaco di calce.

Altra caratteristica della zona sono le case troglodite, cioè le dimore scavate nel terreno e spesso senza alcuna uscita se non una corda per arrampicarsi e raggiungere la superficie. Al di là degli inevitabili disagi che comportano, riescono a garantire all’interno una temperatura fresca durante il giorno e non particolarmente fredda nella fase notturna, mentre di fuori le escursioni termiche risultano spesso assai marcate. Numericamente superiori sono i domicili semitrogloditi, che costituiscono un’evoluzione di quelli più primitivi in quanto scavati nella roccia a livello del suolo. Si tratta in sostanza di fori praticati nelle pareti carbonatiche più tenere e sono pertanto delle grotte artificiali. Anche i templi più remoti si trovano celati nelle viscere dei rilievi, e così pure i ripostigli per l’olio, che insieme con il cous cous e gli spaghetti è uno degli alimenti basilari della collettività locale.

Spicca con la sua bianca mole la spettacolare moschea dei “Sette dormienti”. È battezzata così perché ricorda un gruppo di cristiani di Efeso martirizzati proprio nel punto in cui si erge e divenuti poi santi dell’Islam, oltre che protagonisti di vari racconti musulmani. Sono fra l’altro citati nel Corano, e precisamente nella XVIII sura intitolata “Al Kahf”, vale a dire “La caverna”. C’è anche una narrazione mitica che riguarda i loro tumuli funerari, lunghi quasi 5 metri. Essa racconta che i 7 fedeli, per sfuggire alle persecuzioni di Roma, decidono di trovare riparo in una spelonca. Nell’antro prendono sonno senza più riaprire gli occhi per 400 anni, durante i quali continuano a crescere in altezza fino a raggiungere i quattro metri. Al loro risveglio scoprono che l’unica religione professata nel mondo è divenuta quella di Maometto, per cui decidono di abbracciare il nuovo credo e si conquistano così la gloria eterna del paradiso.

Un po’ più a sud si è di fronte all’isola di Djerba, dove nell’Odissea omerica Ulisse e compagni si cibano del fiore di loto e perdono la memoria della vita passata. Ma forse oggi questa sensazione si avverte approdando sulla terraferma, e più precisamente a Medenine. Nel periodo precoloniale è il maggiore centro dei traffici e richiama commercianti da tutto il Nordafrica e persino dal Bornu. Anche qui si trovano i ghorfas a forma semicilindrica per la salvaguardia e il mantenimento dei cereali. Però la loro destinazione, nel corso del tempo, è progressivamente mutata.

I più, vista la vocazione mercantile della zona, sono divenuti bazar di prodotti artigianali: tappeti, vasellame, bracciali, turbanti e via dicendo. Entrando si scopre subito che non esistono prezzi fissi. Tutto si acquista in seguito a una più o meno lunga contrattazione.

Ma, al di là dei colori delle bancarelle e dei mercati, si avverte d’essere come ad una frontiera, al confine d’un mondo oltre il quale s’apre il “grande nulla”. E gettando lo sguardo verso la sconfinata distesa di sabbia si perde come il senso di quanto si lascia alle spalle. C’è solo qualche rosa del deserto a rompere l’ondulata monotonia che culla l’animo e ipnotizza i pensieri.

A rendere problematico tuffarsi fino in fondo in questo mare dell’oblio è semmai il ricordo neppure tanto lontano d’un decisivo episodio bellico accaduto proprio qui. È il marzo del 1943 e l’ottava armata di Montgomery sta preparando una manovra nota come l’operazione Capri, che ha come obiettivo l’annientamento delle forze dell’Asse tra Medenine e la linea del Mareth. All’alba del 6, in mezzo ad una fitta nebbia, i reparti della 10°, 15° e 21° Panzer Division si lanciano all’attacco delle posizioni inglesi seguendo direttrici convergenti. L’avanzata cozza però contro un muro di fuoco costituito da 400 mezzi corazzati e 500 cannoni. A tre riprese i tedeschi si lanciano all’attacco venendo inesorabilmente respinti. Il combattimento dura fino al tardo pomeriggio. Alla fine, dopo aver perduto un terzo dei 150 carri impiegati, Erwin Rommel decide di desistere. Di lì a qualche giorno le pattuglia della Wehrmacht trovano in tasca ad un prigioniero un foglio di carta su cui sono riportate esattamente le modalità dell’azione. Si scopre così che gli alleati, grazie alle decrittazioni del sistema britannico Ultra, conoscevano in anticipo le manovre dell’assalto nemico. Amareggiato e deluso, il feldmaresciallo più geniale e temuto del terzo Reich lascia definitivamente la guida dell’Afrika Korps e torna in Germania. Il comando passa al generale von Arnim, anche se l’avvicendamento viene tenuto segreto. È ormai la vigilia dello sbarco in Sicilia e del crollo del nazifascismo.
Testo e foto di Lorenzo Iseppi

Didascalie:
- Il villaggio berbero di Chinini
- L’altura attraversata dai jessour
- Le ksour per il deposito e la conservazione dei cereali
- Le celle, dette ghorfas, disposte su più piani
- Abitazione semitroglodita scavata in una parete carbonatica
- Altra casa ricavata come una grotta
- La bianca moschea dei “Sette dormienti”
- I prodotti artigianali al mercato di Medenine
- Gli antichi granai trasformati in bazar
- Rose del deserto ai margini del Sahara tunisino