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Voi siete qui: Mondo » Lettera dallo Zambia: “Cicetekelo” vuol dire speranza

10 Marzo 2013

Lettera dallo Zambia: “Cicetekelo” vuol dire speranza

Quarta lettera di Carlotta dallo Zambia.

Ho un nome zambiano: Kalota, che nella lingua locale, l’icibemba, vuol dire dreamer, sognatore. Me l’ha spiegato uno dei ragazzi più curiosi del progetto cicetekelo; mi ha chiesto in icibemba come ti chiami, io ho risposto: ninievo carlotta. Lui, come tutti, ha travisato: non conoscendo il suono rl, assimilano il mio nome a quello che conoscono. Le cose che mi chiedono: sei mulatta, perché sei così scura e hai quei capelli? Cosa mangiate dove abiti tu, con l’inshima – una specie di polenta fatta con la farina bianca di mais, alimento base della loro dieta, cotta sul braciere dentro pentoloni grandi come tinozze, mescolando con un bastone, divisa in porzioni sostanziose e mangiata con le mani, perché ogni boccone va lavorato nel palmo fino a raggiungere la giusta consistenza, e viene portato alla bocca dopo aver raccolto la verdura che lo accompagna, cavoli o foglie di zucca o foglie di rapa (noi siamo fortunati, c’è quasi sempre anche del pollo, del pesce secco, o un pastone di arachidi supernutriente). Quando io rispondo che noi abbiamo una cosa simile ma la cuciniamo solo d’inverno, dicono poverina, mangi solo le verdure?

Non concepiscono un pasto diverso e poi mi chiedono ma da te le case come sono, e le strade, e gli alberi, e le biciclette ce le avete? Io dico che è tutto uguale, loro mi guardano increduli e hanno ragione, perché non è uguale per niente: è lo stesso concetto, ma amplificato. Per loro la casa è una costruzione angusta e buia, con il tetto se va bene di lamiera, se va male di paglia, spesso una sola stanza con i divani, dove si dorme anche, e dietro una tenda la dispensa. Gli alberi sono manghi e banani e jacaranda trees con le cime punteggiate da fiori arancioni che quando cadono disegnano un tappeto appiccicoso tutto intorno.
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Sui fiori bisognerebbe aprire un capitolo a parte: incantano per la stranezza della forme e dei colori, sono come quelli che inventi da bambino quando ti stufi di disegnare margherite e non poni limiti alla fantasia. La strada è sterrata, e in un attimo diventa un fiume di fango, che incide solchi profondi, rendendola impraticabile perfino per il truck che usiamo come schoolbus – se è asfaltata è talvolta peggio, perché piena di buche che costringono a zigzagare da un lato all’altro. La bicicletta è un lusso, modello da uomo old style, viaggia quasi sempre con un passeggero seduto sul portapacchi, oppure viene usata per trasportare pesantissime gerle di carbone, legate una all’altra a formare una piccola montagna, e per poterla spingere fissano un lungo bastone al manubrio e chi non ha la bicicletta cammina, allineandosi in una processione ininterrotta di donne che vanno e tornano dai campi tenendo in equilibrio sulla testa ceste sacchi e perfino zappe, di ragazzi in uniforme scolastica, di gruppi di bambini che quando sono stanchi si siedono e guardano chi passa.

La vita privata e pubblica scorre all’aperto: si cucina, si mangia, si fa il bucato seduti sulla terra, si vende e si compra al mercato, organizzato in banchetti di legno, oppure a lato delle strade più trafficate, frutta verdura vestiti borse scarpe pezzi di ricambio tecnologia galline divani assicurazioni tutto. Ci si ubriaca anche per strada, bevendo birra da cartoni come quello del latte, e si dorme dove capita, nelle aiuole sui bancali di legno sotto le tettoie dei benzinai, gli adulti in solitaria, i bambini in gruppo.
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È di notte che si vanno a cercare i piccoli che vivono sulla strada: è l’unico modo per capire se sono davvero abbandonati a loro stessi oppure vagabondano solo di giorno, laceri e ridanciani, aspettando le madri che dai campi vengono a vendere in centro, senza sapere dove lasciarli. A fine giornata rimangono solo quelli che non hanno un posto in cui andare, perché sono orfani o abbandonati o scappati. Chiedono l’elemosina fuori dai locali notturni, la maggior parte di loro spende tutto per la marijuana o per quello che viene chiamato bostic, la colla che sniffano da bottiglie di plastica. Poi si accucciano da qualche parte, lontano dalla zona più frequentata, che diventa pericolosa quando il tasso alcolico si alza, e aspettano che si faccia di nuovo giorno.

La prima volta sulla strada temevo che il cuore andasse in pezzi troppo piccoli per poterli ricomporre: occhi liquidi che ti guardano senza chiedere, senza sperare, enormi nel viso spigoloso. Dimostrano tutti meno anni di quelli che hanno realmente, e davanti ad un ragazzino di sei o sette anni devi frenare l’impulso di nasconderlo sotto la giacca e portarlo via. Il pensiero che nella corsa ad ostacoli della loro vita dopo il rischio di nascere sieropositivi, la malnutrizione, le malattie infantili, le violenze da parte di adulti che considerano i bambini l’ultima ruota del carro, il pensiero che dopo aver saltato tutto questo ci siano la strada e quella droga orrenda, è insopportabile. Me ne sono resa conto in un attimo: sto vivendo qualcosa di miracoloso – o di straordinario, dipende da quello in cui credete. Scegliete voi come chiamare il progetto cicetekelo, che convince pazientemente i bambini di strada a iniziare un percorso di recupero che richiede impegno e consapevolezza, fatto di gradini a cui corrispondono luoghi diversi.
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Fase 1, dove imparano a vivere la loro età, protetti dalle intrusioni del mondo circostante.
Fase 2 per i più piccoli, che prevede una preparazione scolastica di “quattro anni in due” per i neofiti, e altre attività per tutti quelli che sono già stati reinseriti nelle community school.
Fase 3 per i più grandi, che riprendono la scuola da dove l’hanno interrotta oppure ricevono insegnamenti pratici, che li preparano al mondo del lavoro – ed è all’interno di questa grande struttura che abitiamo noi volontari.

I ragazzi che fanno parte del progetto sono moltissimi, così come le forme assistenziali: ci sono i residenti, tolti dalla strada a 6 anni, che vivono e diventano grandi qui; quelli che dopo fase 1 tornano alla famiglia di origine, ma continuano ad essere seguiti nel percorso scolastico o formativo; i casi meno vulnerabili, termine tecnico, che sono in grado di camminare da soli se supportati economicamente. Inutile dire che è una goccia in un mare di brutture, ma è una goccia meravigliosa, e non poteva avere nome più azzeccato: cicetekelo vuol dire speranza.
Questa volta sono stata prolissa; per rispondere alle domande di tutti, comunque, dovrei scrivere un romanzo. Panono panono ci arrivo – e non si tratta solo di raccontare, ma in primis di capire.
Come sempre vi abbraccio.
Carlotta

– Indice delle lettere inviate da Carlotta dallo Zambia

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