Ai primi del Settecento il marchese e letterato di Verona Scipione Maffei incomincia ad accarezzare il progetto di raccogliere e porre al sicuro tutte le lapidi che, esposte alle intemperie e all’incuria, sarebbero altrimenti destinate ad andare perdute. Intuisce subito che soltanto un istituto pubblico può garantire una stabile tutela. Dopo varie ricognizioni propende per il cortile dell’Accademia Filarmonica, dove già si trovano semiabbandonate una trentina di pietre sepolcrali. La proposta viene accolta con favore e alcuni nobili elargiscono le iscrizioni di loro proprietà. Nel 1716 il senato veneto dà il via libera consentendo la sistemazione nel luogo prescelto delle lastre funerarie sparse in città e provincia. Nasce così il primo nucleo del museo intitolato al suo ideatore. Ma il solo territorio scaligero non offre troppe varietà di esemplari. Spinto dal desiderio di allargare sempre più la collezione, lo studioso inizia una sequela di ricerche a tappeto. Prega gli amici che gli spediscano epigrafi in dono, commissiona acquisti a proprie spese, propone scambi e allestisce persino una lotteria con il cui ricavato comperare nuovi pezzi.
L’ultima iniziativa, a dire il vero, produce più grattacapi che vantaggi. I premi posti in palio sono pregevoli quadri d’autore ottenuti con denaro personale o chiesto a prestito. L’elenco comprende tele di pennelli assai famosi: Tiziano, Tintoretto, Giorgione, Palma, Bassano, Caroto, Orbetto e via dicendo.
Dopo un anno, però, i frutti tardano ad arrivare e così i dipinti vengono rivenduti separatamente, in modo da recuperare almeno le spese. Nel 1719, comunque, i manufatti antichi raccattati qua e là arrivano a quota 200. La prima classe è costituita da caratteri ignoti, etruschi, punici ed egizi. La seconda è rappresentata dalle opere elleniche. Seguono le latine, divise in votive e imperatorie, e quindi le serie legate ai secoli bassi e ad altre lingue. Nel 1720, sempre intenzionato ad ampliare il patrimonio dell’istituto, l’instancabile aristocratico si reca a Firenze e lì rimane due anni. Purtroppo non riesce a combinare gli affari che più gli stanno a cuore, specie quando tenta d’acquisire il copioso lascito Corsini.
Istigazione a delinquere
Maffei cerca allora di consolarsi con ulteriori reperti, ricorrendo anche a sistemi non molto ortodossi. L’11 novembre del 1721 scrive all’amico Vallisnieri di Padova una lettera in cui si legge: “Ora io vi prego di un favore che mi preme assaissimo. Nel cortile dei Bassani, nel cantone presso all’orto, fra un cumulo di sassi, vi è quella lapide stampata dall’Orsato. È voltata in giù, nera e negletta, non essendosi accorti che è antica, tanto è logora e guasta. Io ho un’infinita premura di averla. Se i padroni fossero in villa, con una mancia a una donna che quivi abita, la lascerà facilmente prendere, e di notte, come a dir due ore avanti giorno, si può facilmente con una carriola o sopra un asino trasportare a casa vostra. In grazia procurate di farmi questo favore e più presto che sia possibile. Potreste dare l’incarico a qualche vostro spiritoso scolaro”. In poche parole, pur di mettere le mani su qualche rarità è pronto anche ai maneggi, ai raggiri e al furto.

Rientrato nella terra natia, si dedica al riordino del materiale e agli inizi del 1727 la fase costitutiva del programma tanto sognato si può dire conclusa. A questo punto diviene quasi obbligatorio dedicare le energie a un miglioramento degli spazi. Pensa di dividere il giardino con quattro aiuole e di circondarlo con un porticato. Al centro vorrebbe porre la vasca romana di porfido ubicata a lato della basilica di San Zeno mentre vagheggia di utilizzare come ingresso la maestosa porta romana dei Leoni. Ma le difficoltà economiche vanificano almeno in parte gli ambiziosi desideri. Segue un viaggio in Austria, Germania, Inghilterra e Francia. Al ritorno avvia la seconda fase. Riprende contatto con amici e compie nuove ricerche. Nel 1738 è a Rovigo, Ferrara, Ravenna, Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, Urbino, Gubbio, Cortona e Arezzo. Nell’estate dell’anno successivo si reca in giro tra le botteghe degli scalpellini romani per trovare ulteriori gioielli. Contemporaneamente mette sotto pressione i segugi più fidati, non senza la raccomandazione di eludere gli sprechi. Scrive per esempio a un amico di visitare gli spezzapietre della capitale chiedendo i prezzi ma evitando i tranelli. E conclude con un ordine perentorio: “Non bisogna andare in carrozza. Si parte alla mattina, incognitamente”.
Il buon uso della malattia
Del resto l’epistolario del tempo è una continua riprova dell’assiduo impegno. In una missiva scrive testualmente: “Ho acquistato bassorilievi rarissimi, che nel loro genere sono dei tesori”. E ancora, dopo avere sborsato l’ennesima fortuna: “Ho preso nuove meraviglie. Ma che sarà di chi l’ha fatto? Questa è una strana specie di scabbia!”. E, consapevole d’essere quasi preda d’una oscura malattia, aggiunge: “Oh, che matto! Serse si innamorò di un albero ed io di figure mute”. Le quali comunque – aggiunge poi a titolo di autogiustificazione – non mi hanno mai dato disgusto alcuno, mentre non posso dire la stessa cosa per quelle dotate di parola. Tuttavia non è ancora sazio e si rammarica: ”Non posso vantarmi d’una Venere, di un Marte o di un Nettuno”. A metà del XVIII secolo arriva in ogni modo a 544 reperti.
Contemporaneamente pubblica un testo in cui sono classificate e descritte tutte le opere. Tra le tante lodi non manca qualche critica. Gli si rimprovera d’avere manomesso alcuni monumenti per asportare soltanto la fascia scritta o scolpita. Lo si accusa d’avere collocato all’aria aperta le lamine di bronzo, facilmente trafugabili. Theodor Mommsen, in particolare, lo riprende per avere trascurato d’indicare con esattezza la derivazione degli oggetti. Ma il rilievo dello storico tedesco, pur autorevolissimo, sembra il meno fondato. Il fenomeno si riferisce in effetti a casi abbastanza episodici e la difesa di Luigi Simeoni ha buon gioco nel ricordare che i materiali acquisiti non vengono quasi mai dal loro sito originario. Aggiunge che a volte è necessario coprire il nome del fornitore per non confessare gli eventuali intrighi più o meno irregolari.
Dopo la morte del fondatore nel 1755, continuano ad affluire nuovi marmi, per cui è necessario aggiornare il catalogo. Il primo a rivedere l’elenco è Jacopo Fuselli, che scheda i reperti seguendo il criterio dell’ubicazione nell’atrio dell’Accademia, sotto il loggiato e negli intercolumni. Successivamente l’onere viene affidato al conte Giacomo Verità, con il quale la raccolta conosce un ulteriore ampliamento. Riceve in omaggio una colonna con “motto di Boezio” e un frammento del ciborio del duomo cittadino.

Nel 1783 procura una testa di donna romana, un piede di marmo pario, un pezzo di statua palliata alta un metro, un genio con le insegne, un milite e un gruppo di tritoni. Nello stesso periodo si verificano anche delle sottrazioni, di cui non è possibile stabilire l’entità. Secondo il Tommaselli, nel 1792 mancano 30 pezzi rispetto a 24 anni prima. Ma è durante il dominio francese che si registrano i danni più seri. Alcune lapidi sono vandalicamente distrutte, mentre un certo numero finisce al di là delle Alpi. Delle opere trafugate, alla caduta di Napoleone, torna soltanto il testamento di Epitteto. Tra le perdite maggiori c’è da ricordare un bellissimo puteale con Apollo, satiri e baccanti appartenuto un tempo alla collezione Bevilacqua.
(Prima parte – segue)
Testo e foto di Lorenzo Iseppi
Museo Lapidario Maffeiano
Piazza Bra 28
Verona
Orari: dal martedì alla domenica 8.30-19.30; lunedì 13.30-19.30
Biglietto: intero 4,50 €; ridotto 3,00 €
Informazioni: tel. 045.590087
www.comune.verona.it/Castelvecchio/cvsito/mcivici1.htm
Didascalie:
- Il quadriportico del Museo Maffeiano di Verona
- Il giardino con le lapidi d’età romana
- Il viaggio nell’oltretomba in carpento
- Grifi senza ali e con corno arricciato
- Cavaliere nudo a cavallo che punta la lancia contro un nemico