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Voi siete qui: Italia » A Tuoro sul lago Trasimeno si erge il “memoriale” di Annibale

8 Maggio 2009

A Tuoro sul lago Trasimeno si erge il “memoriale” di Annibale

tuoro_anteTuoro è un paese di 3800 anime affacciato sulla sponda settentrionale del Trasimeno. Alla sua giurisdizione appartiene anche l’isola Maggiore, posta a poche centinaia di metri dalla riva e legata a un presunto eremitaggio di San Francesco d’Assisi durante la quaresima del 1211.

La comparsa del borgo risale al tardo medioevo, eppure è già famoso ancor prima di nascere. E tutto perché ha la ventura o la balzana idea di sorgere su una pagina di storia non comune: il territorio del cruentissimo scontro tra cartaginesi e romani nel corso della seconda guerra punica.

Oddio, segnando in rosso ogni località che Annibale avrebbe toccato scendendo lungo la penisola salta fuori una mappa molto simile al morbillo. Il Monviso associa il nome del condottiero a un tunnel lungo 70 metri, Casteggio a una fontana, Modigliana a un pozzo, l’Arno e la Sieve a due ponti, Pievepelago a un passo, una strada e un numero imprecisato di piane.

Esiste persino il paese di Magona, e così si tira in ballo anche il fratello minore del generalissimo. Due frazioni piacentine si chiamano Tartago e Zerba, che sarebbero storpiature padane di Carthago e Djerba. La stessa battaglia di Canne, dove avviene la più grande carneficina del mondo antico, è fissata da certi studiosi presso il fiume Ofanto, ma trasferita da altri più a nord, vicino al letto del Fortore, e da altri ancora nella valle del Celone.

Nel caso del conflitto umbro nessuno in verità nutre dubbi sulla collocazione, anche se non mancano alcune controversie di diversa natura.
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Si sa che il figlio di Amilcare Barca parte dalla Spagna e giunge in Italia con 50 mila soldati, 9 mila cavalli e 37 elefanti. L’esercito comprende inizialmente africani, iberici e celti, ai quali si aggregano infine liguri e insubri. Si apre la strada lungo i valichi alpini sbriciolando le rocce con l’aceto e lasciando sul terreno una non trascurabile quota di uomini e animali.

Ma le difficoltà maggiori le subisce quando, superati  gli Appennini attraverso il passo di Collina, incontra le zone paludose del Serchio e dell’Arno. Tra bufere di vento, acquitrini ed epidemie perde la vita almeno un quinto delle truppe. Periscono anche gli ultimi “carri armati” dell’epoca, cioè i pachidermi, compreso il celebre “Saurus”, l’unico di razza indiana.

Il geniale stratega resta anche privo dell’uso dell’occhio destro a causa di un’oftalmia curata male. Il Petrarca, spendendo qualche rima in proposito, scrive che “al freddo presso il fiume tosco, era strano a veder quel duce losco”.
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Comunque, benché menomato nella vista, conserva integerrima la lucidità mentale. Sa che il console Caio Flaminio, alla guida della potenza nemica, è nelle vicinanze. Finge di superarlo nella corsa verso la “città eterna” e saccheggia i campi di grano aretini. Moltiplica così la rabbia dell’avversario e lo sospinge all’inseguimento. Poi prende invece verso est, in direzione di Perugia, e prepara la trappola.

La sera del 23 giugno del 217 a.C. ordina ai suoi di accendere dei fuochi sulle alture più lontane per indurre i rivali a un calcolo errato delle distanze. Dispone quindi gli uomini in modo da circondare completamente le forze antagoniste. La mattina dopo i soldati romani si mettono in marcia credendo di braccare le milizie degli invasori. Imboccano così la strettoia che da Borghetto porta verso il Trasimeno. Si snodano incolonnati per oltre un chilometro, costretti in fila indiana.

La cavalleria punica, appostata dietro i rilievi, attacca sul fianco sinistro completamente scoperto ed è un vero massacro. Ogni via di fuga è impossibile a causa degli acquitrini e dei canneti, numerosi ancora adesso, tanto che a San Feliciano esiste tutt’oggi una florida lavorazione di rotoli d’incannucciata. Periscono ben 16 mila legionari e con loro anche il comandante supremo, colpito con una lancia dall’insubro Ducarios.
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Non è facile spiegare come un ufficiale di altissimo grado e di lunga esperienza abbia scelto di percorrere un tratto così angusto e pericoloso. Un esperto del ramo come Giovanni Brizzi rileva comunque che secondo l’antica mentalità latina le battaglie non possono comportare trucchi o imboscate. Ci si dispone in campo aperto e si duella fino alla vittoria d’uno dei due schieramenti.

Annibale è invece intriso di scuola ellenica. Il precettore che lo istruisce è di Sparta e greco di Sicilia è Sileno, lo storico che lo segue in ogni dove e diviene poi la fonte primaria di Polibio. Come l’astuto Ulisse del cavallo di Troia ritiene quindi che l’inganno costituisca un lecito strumento d’offesa come tutti gli altri, anzi maggiormente legittimo in quanto più micidiale ancora. Quando sulla Trebbia intima a un manipolo di nascondersi in una gola, lo rassicura aggiungendo che non deve temere, in quanto “romani nihil ad hoc genus belli adsueti”. Un discorso analogo vale per il magistrale successo pugliese del 2 agosto 216 a.C.

tuoro4Annibale lascia di proposito che i nemici sfondino al centro e poi li accerchia con la cavalleria pesante. Anzi, un contingente di numidi finge di arrendersi prima della battaglia e viene condotto in cattività nelle retrovie. E quando gli scontri raggiungono la fase cruciale i prigionieri, dotati di spade corte abilmente occultate, contribuiscono dalle spalle allo sterminio nemico. Ecco perché c’è chi sostiene che l’eletto Barcide sembra quasi un abilissimo regista di film guerreschi. Inventa una trama, scrive un copione, assegna le parti agli attori e li guida nell’interpretazione fino al trionfale “the end”.

Le discordie principali tra gli specialisti ruotano essenzialmente intorno all’ampiezza del teatro in cui situare il combattimento. Giancarlo Susini sostiene che all’epoca il bacino lacustre è più vasto di adesso e copre una considerevole fascia della pianura. Per cui il campo della lotta si restringe alla sola valle a nordest di Tuoro. Il prof. Nissen ritiene invece che i livelli e la relativa linea di costa del lago sono simili a quelli odierni. Se è così, la chiusura dell’imboscata si sposta a oriente, presso la stretta di Montigeto.

Per il resto gli indizi e i riscontri tornano. Da tempo immemorabile la strozzatura entro cui si infilano le schiere destinate all’annientamento viene indicata con il nome di Malpasso. Il corso d’acqua Sanguineto ricorda il bagno di sangue di quell’inizio estate d’oltre duemila anni fa. Per non parlare di Ossala, Sepoltaglia e Pian di Marte, toponimi che oscillano tra il lugubre e il macabro e non possono non essere connessi con un episodio memorabile.

Tuttavia fino agli ultimi decenni del secolo scorso non si registra una particolare tendenza a rispolverare un fatto così eccezionale. Tra le poche tracce fisiche c’è un monumento in mattoni a piramide tronca eretto nel 1920, con una lapide che definisce la disfatta come un’antica Caporetto e cita poi il riscatto di Zama. È soltanto negli ultimi decenni del Novecento che si assiste a una vera e propria riscoperta d’un passato remoto intriso di leggenda.

Sempre più numerosi si susseguono gli incontri e i convegni di studiosi di fama internazionale. Nasce un centro di documentazione permanente con finalità scientifica e divulgativa. Si procede alla raccolta di tutta la bibliografia sull’argomento e nel contempo sono riprodotte su grafici e pannelli le fasi dell’epico conflitto. La biblioteca locale provvede anche a tradurre dal tedesco e dall’inglese gli articoli di autori quali Kromayer, Reuss, Sadée e Fuchs. Viene attivato un percorso archeologico che, attraverso una serie di soste in aree attrezzate, mostra ai visitatori le zone nevralgiche della lotta. È possibile anche vedere da vicino gli “ustrina”, ossia le fosse troncoconiche scavate nel calcare dai punici per incenerire i cadaveri.
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È come se, sulla scorta delle indicazioni psicanalitiche, si volessero sanare oscure ferite non cicatrizzate lasciando riaffiorare dall’inconscio individuale o collettivo un trauma rimosso dell’infanzia. E in quel clima, con l’avvicinarsi del ventiduesimo centenario del drammatico evento, prende corpo anche un sogno particolarmente ambizioso. A Punta Navaccia, proprio sulla sponda che con la bella stagione si trasforma in località balneare, l’amministrazione civica recupera un’area di verde pubblico accarezzando l’idea di erigere un monumentale “Memorial”. La direzione artistica è affidata a Enrico Crispoldi, mentre alla progettazione concreta sono chiamati Pietro Cascella, Cordelia Von den Steiner e Mauro Berrettini. Si punta a una serie di colonne scolpite e si ottiene l’adesione di 28 personaggi, per lo più italiani, ma anche di altri Paesi: Giappone, Germania, Inghilterra, Perù, Senegal. Il materiale prescelto è la pietra serena della zona, escavata un tempo in località La Croce e poi nell’area di Sant’Agata. La trasposizione dei modelli avviene nel laboratorio dei fratelli Giulio e Mauro Borgia. Il lotto delle prime 9 opere è del 1985, mentre le ultime si concludono nel 1989.

Alla fine germoglia una grande spirale caudata del diametro di quasi 50 metri. Lo slancio verticale dei fusti lavorati sembra evocare i megaliti protostorici, tipo Stonehenge. Un sentiero lastricato traccia sul manto erboso il percorso da seguire, che in realtà si presta a continue diramazioni dando l’impressione d’un insieme labirintico.
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L’approdo ultimo verso cui le molteplici traiettorie possibili spingono in maniera centripeta è costituito da un desco circolare di Pietro Cascella. D’intorno una serie di piccoli cubi invitano ad accedere a questa moderna “tavola rotonda”, che forse ricorda la mensa del castello di Camelot, ideata a forma di cerchio perché i posti a sedere siano tutti egualmente dignitosi e non scoppino conflitti tra i cavalieri di re Artù.
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Sul ripiano si leva invece un elemento plastico che allude chiaramente al cosmo. La struttura viene solennemente battezzata “Campo del sole”, che in sostanza si svincola dalle intenzioni originarie di luttuoso luogo dei ricordi per dilatare il senso del suo essere dal crinale storico al mondo del quotidiano, in una specie d’invito alla comunicazione familiare e all’incontro pacifico.

E in effetti, guardando da vicino le singole stele, si scopre che l’unica vagamente connessa con l’antica vicenda bellica è quella di Igino Balderi, in quanto sembra un’armatura con la celata aperta. tuoro9Per il resto si assiste al libero sfogo interpretativo dei singoli artisti. Adolfo Innocenti esegue un pilastro d’ispirazione tuscanica, in omaggio alla terra etrusca. Valeriano Trebbiani crea un palmipede che sembra balzare fuori dalla acque lacustri. Pasquale Liberatore recupera le forme naturali della roccia. Joaquin Roca-Rey modella una raffinata struttura magico-totemica.
Joe Tilson dà vita ad un quadrato, sulle cui facce è iscritto in greco un inno omerico a Dioniso. Aurelio De Felice partorisce un lavoro fortemente materico e quasi gestuale. Kengiro Azuma firma un fusto modulare con una serie di incavi che alludono al fluire del tempo. Rinaldo Bigi plasma un traliccio coperto da una nube gonfia di pioggia e che sprizza saette. Costantino Nivola si cimenta in un maestoso idolo arcaico aperto a un ascolto galattico.

Con l’arrivo del 2009 il complesso compie vent’anni. Non avrà probabilmente contribuito a esorcizzare le inquietudini correlate ai fantasmi d’un tempo che fu. tuoro12In compenso aggiunge un ulteriore pizzico di magia a un angolo d’Italia che non ha nulla da invidiare ai siti più ricercati. Nel  dialogo tra cielo, terra e acqua si compone infatti una tavolozza in cui intingono i loro pennelli artisti come il Perugino e il Pinturicchio. E prendono vita i paesaggi che lasciano incantati Goethe, Stendhal e Byron. Bisogna solo aggiungere che nella salvaguardia di un habitat così esclusivo quanto delicato c’è anche lo zampino della città di Romolo e Remo. La quale, se è vittima d’una debacle militare contro Annibale, consegue invece un’affermazione di rilievo in campo civile. È infatti grazie all’ingegneria idraulica di Roma che viene costruito il primo emissario destinato a regolarizzare il livello del Trasimeno e a impedire le inondazioni, anticipando una tecnologia ripresa e completata poi nel rinascimento.

Testo e foto di Lorenzo Iseppi

tuoro13Didascalie:

  • La riva di Punta Navaccia davanti all’isola Maggiore
    I colli che attorniano la conca di Tuoro
    I canneti lacustri, in mezzo ai quali finiscono i legionari romani
    – Il volto di Annibale nella statua di Sebastien Slodtz
    – Ricostruzione grafica della battaglia del Trasimeno del 217 a.C.
    – Il “Memorial” eretto negli anni fra il 1985 ed il 1989
    – La colonna-papera di Valeriano Trubbiani
    – La stele quadrata di Joe Tilson con l’inno omerico a Dioniso
    – L’opera fortemente materica di Aurelio De Felice
    – La tavola-desco centrale di Pietro Cascella
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