Undicesima parte del reportage di Marco Grassano sull’Olanda.
Arriva il battello, bianco, grande. Si accosta lentamente al pontile e vi aderisce per tutta la propria lunghezza. Sulla fiancata, una tavola di legno a smalto trasparente ne riporta il nome: Bep Glasius. Scende una frotta di passeggeri, quasi tutti muniti di bicicletta. Il personale ci dice che l’imbarco avverrà solo fra un quarto d’ora. Ci sediamo in un angolo, per terra. Leggo qualche pagina di Bertolucci:
Venne l’autunno con l’accorciarsi malinconico delle giornate
ma il compenso
delle luci accese, nella città vivace, in anticipo sull’ora stabilita
così da riflettersi nelle strade lustrate dalla pioggia….
(Attilio Bertolucci, La camera da letto, ndr)
Esibendo i biglietti, veniamo finalmente fatti salire a bordo, sul ponte di poppa, dove un addetto in divisa marinara, non più giovane ma abbastanza corpulento, afferra le bici di tutti e le compatta in una schiera tale da autosostenersi. Veniamo poi invitati a trasferirci, passando attraverso un salone interno e una stretta e ripida scaletta a picco sull’acqua, al castello di prua, davanti alla cabina di pilotaggio. Prendiamo posto sulla panca lungo le murate.
Il traghetto parte. Il primo tratto di percorso corre nel canale tra la diga foranea e la massicciata che protegge l’abitato e la darsena, folta di alberi maestri. Una lingua di terra sabbiosa e boscata. La linea costiera si allontana dalla nostra rotta verso sinistra, ma non abbastanza da sottrarci alla vista una schiera di pale eoliche: in parte sulla terra, a svettare sopra la fascia boscosa, e in parte, non so se per effetto ottico, off shore.
Procediamo verso nord su un’acqua tendente al verde grigiastro, come le foglie di certi ulivi giovani, senza i densi pigmenti marroni che colorano il Tago nel Mare di Paglia. Lontano alla nostra sinistra, una specie di piatto e squadrato atollo di massi, con una cresta di vegetazione e, staccati, pontili e barche a vela; la cartina lo indica come De Kreupel.
Una ragazza mora gira fra i passeggeri a raccogliere le ordinazioni, poi torna recando su un vassoio bottigliette e bicchieri. Alla mia sinistra, alcune mature olandesi conversano allegramente, lardellando le rispettive chiacchiere di ripetuti “O ià”, quasi fossero pettegole massaie della Lomellina.
L’aria che, per effetto del movimento, ci investe è tiepida e salmastra. La navigazione procede regolare. La terra, tutt’attorno, è ora solo un’esile linea bluastra. Poi, man mano che cominciamo ad avvicinarci alla meta, vediamo stagliarsi verso destra altre pale eoliche, numerose, tutte in rotazione. Evidentemente il vento è costante, non frapponendosi ostacoli naturali al suo impeto.
Bordeggiamo la costa fino a imboccare un canale che inizia tra un faro verde, retto da un basso traliccio posto lungo un tratto di massicciata parallela alla riva, e il suo omologo rosso, in pizzo alla diga foranea. Sulla destra, casette snelle, appiccicate l’una all’altra a formare due tronconi di schiera, tinteggiate in colori vivaci, come nel quartiere Boca di Buenos Aires: azzurre, gialle, arancio, granata, rosse, verde oliva.
Approdiamo a un pontile di legno grigio analogo a quello della partenza. L’addetto nerboruto di prima estrae le bici, una a una, dalla massa in cui le aveva accorpate e le porge ai rispettivi proprietari. Passiamo attraverso le due piccole costruzioni dell’Ufficio Turismo, di foggia moderna ampiamente vetrata. Subito a destra, in un altro ridotto edificio assai recente, il bar Havenhoofd.
Una tonda e bassa fontana, accessibile ai bambini che vi vogliano sguazzare, in cui l’acqua zampilla dai fanoni di un enorme pesce chiazzato di castano, a bocca spalancata, che mi fa pensare al pescecane di Pinocchio. Appena oltre, una bacheca illustra, in due oscure lingue germaniche, le caratteristiche di Stavoren (Starum) e della Friesland (Fryslân). Mi viene in mente per analogia – ma forse quassù la scelta ha fondamenti storici e culturali decisamente più seri – il vezzo dialettale di alcuni dei nostri villaggi, che ostentano sul segnale d’ingresso il nome del paese in due forme: Fresonara (Fresnèra).
A sinistra, alcuni cassoni per i rifiuti, prefabbricati in graniglia grezza. Un ponte levatoio bianco dà accesso al centro storico, scavalcando il canale – sbarrato da chiuse – che dal porticciolo conduce alla darsena. Appena lo varchiamo, ci incuriosisce, in basso a destra, la statua bronzea di una fanciulla in abito lungo, con in testa un berretto conico da fata… o da Pinocchio, tanto per restare in tema. Incisa su una targa, pure in bronzo, applicata al piedistallo, l’iscrizione De vrouwe van Stavoren.
Inforchiamo le bici e iniziamo a pedalare. Ci infiliamo nella via di fronte a noi, che inizia con un Hotel Bar Restaurant bianco. Edifici bassi, in mattoni o legno, di fogge diverse, in buona parte a destinazione turistica. Uno slargo al cui centro prende avvio, alla base di un piccolo emiciclo a gradini, un canale orlato da un doppio filare di olmetti e da due file case a un solo piano, aderenti l’una all’altra ma variegate. Mi ricordo di un’immagine analoga colta in qualche borgo della bassa emiliana.
Ci teniamo sul lato destro, pavimentato a sampietrini rettangolari rossastri. Su una facciata con due ampie vetrine riappare, in bella evidenza, il cognome De Boer. Nel canale, qualche barchetta. Man mano che avanziamo, mi pare sempre più di essere in una quieta periferia residenziale anglo-americana. La Baptistenkerk. Un piccolo ponte varca il naviglio, collegando alle case dell’altra riva. Più avanti, un altro ponticello bianco, pedonale. Cominciamo ora a rasentare, in curva, un argine alla nostra destra. Le case a sinistra divengono villette separate, ma sempre con qualcosa di yankee.
Nello spiazzo finale, in cui gli edifici sono quasi assenti, prendiamo a destra e superiamo un ponte levatoio bianco-azzurro. Una curiosa cabina in metallo, vetro e legno, dalla quale forse si manovrano ponte e chiuse. Una grande costruzione con la facciata scandita da vele di cemento – come nella stazione di Aveiro (in Portogallo, ndr) – sulla quale è ben visibile la scritta J L Hooglandgemaal; all’interno si intravedono, attraverso le vetrate, alcune enormi idrovore.
I sampietrini lasciano posto all’asfalto. Costeggiamo un terrapieno inerbito, dietro cui vediamo spuntare antenne di barche. Poco oltre, a emergere è invece un rango di chiome d’albero. Lungo tratti di argine cintati da reti metalliche e da staccionate, pecore sparse brucano con serafica lentezza. Sulla sinistra corre un ampio naviglio, aldilà del quale si estendono prati lussureggianti in cui pascolano cavalli. Si stagliano ora sulla sinistra otto pale eoliche, in movimento. Nel punto in cui la staccionata dei pascoli incrocia l’asfalto, passiamo vibrando su una griglia di barre metalliche. Più avanti, altra staccionata e griglia.
Il paesaggio procede invariato per un po’, tranne che per un lieve serpeggiare di terrapieno e strada. Ancora una griglia. Cominciano ad apparire sporadici ciuffi o filari di alberi. Compare anche, a sinistra, qualche fattoria, mentre l’argine finisce e l’asfalto sale leggermente, a dominare la laguna che si perde all’orizzonte.
Undicesima parte – Segue
Marco Grassano
Foto di M. Ester Grassano
Didascalie:
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- Il porto di Stavoren
- Il canale in mezzo a Stavoren
- Costeggiando l’argine
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