Seconda e ultima parte del reportage di Marco Grassano sull’isola di Saint Honorat. La prima è pubblicata qui.
Il terzo giorno lo inizio con una colazione frugale e con la partecipazione alle Laudi. Poi mi siedo sugli scogli e apro il libro che mi sono portato: I sei giorni della creazione, di Sant’Ambrogio. Il testo è intenso, e la sua descrizione del mare luminoso, il cui mormorio ricorda quello della folla dei fedeli che recitano il responsorio, e le cui acque sono ornate da collane di isole dove si rifugiano gli eremiti in fuga dal rumore mondano, sembrerebbe venire a proposito. Eppure queste pagine, raffinate e ben scritte ma troppo impegnate a “dimostrare”, sono fuorvianti rispetto all’atmosfera nitida e concreta dell’isola e del convento.
Mi ci vuole qualcosa che stabilisca un contatto più diretto, qualcosa che mi riporti, anche nella sua scabra complessità, alle parole primitive. Mi acquisto quindi una Bibbia, nell’accuratissima versione francese della Scuola di Gerusalemme, e mi impegno con alcuni dei testi più aspri: l’Ecclesiaste, le Lamentazioni, l’Apocalisse, il Libro di Giobbe, ma anche con la dolcezza del Cantico dei Cantici e con la lapidaria esemplarità delle storie di Ruth e di Giona.

Nel frattempo rifletto, mi interrogo e annoto le mie perplessità: “Quella monacale è una scelta difficile, una scelta di rinuncia a intervenire direttamente nel mondo. ‘Date al mondo l’esempio della vostra vita singolare. Parlate al mondo col vostro silenzio’ ha esortato i frati Paolo VI. Ma basta, l’esempio? Tra urla e rumori, quale attenzione riceve il silenzio? E con l’intrusione continua di televisione, cinema e altri mezzi che propongono con violenza ben diversi modelli di vita, quale spazio e quale forza può trovare il piccolo, mesto esempio dei monaci? Quanti sanno che c’è gente che vive così? È possibile migliorare il mondo, oppure si può incidere solo sulle sue parti più sensibili?”. Ne parlo con fratello Pierre Marie. Mi risponde che i monaci sono su quest’isola da quindici secoli, e ciò dimostra la forza e la durata del loro messaggio. Mentre ci si lamenta che le parrocchie sono vuote, i monasteri sono pieni: le persone vi cercano silenzio, quiete, ma anche risposte. Tanti giovani vengono a offrire diciassette giorni di servizio volontario per accogliere i turisti e guidarli a visitare i monumenti, lasciando al convento il ricavato del biglietti. “Il vostro posto è nel mondo, è là che voi dovete dare il vostro esempio. Il nostro invece è qui, e quando avrete bisogno di noi, venite a visitarci: speriamo di potervi dare una forza in più da riportare là fuori” mi dice alla fine.
La prima conferma alle sue parole la trovo rileggendo l’Ecclesiaste, al versetto 17 del capitolo 9: “Le parole calme dei saggi si ascoltano più delle grida di chi domina fra i pazzi”.
La seconda l’ottengo all’alba dell’indomani, destandomi come per miracolo alla flebile campanella dei monaci dopo che la sveglia non ha funzionato. Le Vigilie iniziano alle 4.30. La pesante, nera ottusità del sonno mi grava come una cupola opaca sul cervello, ma quando, alla fine dei canti e delle salmodie, scorgo un frate anzianissimo, tutto ingobbito, rimpicciolito, che cammina torpido sostenendosi con due bastoni le cui punte battono sul pavimento con un tonfo sordo, un barlume mi si accende. Dapprima sono colto da compassione; poi, osservandolo trascinarsi verso la cappella del Santissimo e udendo con quale voce sonora e appassionata lo invoca, capisco che non devo vedere in lui la malinconia del corpo declinante, bensì la determinazione di chi si sente vicino alla propria meta, e da questo trae nuovo vigore nel pur difficoltoso viaggio.
Mi impegno in un lavoro manuale, duro, sotto la cappa del sole che incombe quasi a picco, per sarchiare il giardino del chiostro: anche questa l’avverto gioiosamente (canto a fior di labbra la litania Accorde-le, Seigneur, udita in chiesa la sera prima) come una preghiera laica, un qualcosa fatto gratuitamente a beneficio degli altri. Ecco la grande crescita, la svolta qualitativa provocata da questo soggiorno. Adesso vivere la dolorosa quotidianità di un’epoca malata mi pesa un po’ meno.

Potrei fare un discorso a parte per le bellezze dell’isola, per i colori pastosi dei suoi tramonti affocati, per il rosa acquerellato delle sue albe che crescono in un sole così intenso da rendere porosi gli oggetti su cui si riversa, per i profumi resinosi di questo scoglio assediato e rosicchiato dal mondo, per la trasparenza del mare, per le strida molteplici dei gabbiani che planano lenti e bassi (con le ali immobili, come nel quadro di Nicolas De Staël Les mouettes) – alcune roche, altre più acute, altre simili al vagito di un bambino -, per il rosso tremolio, sull’acqua notturna, della luna piena appena sorta di fianco al faro e al monastero fortificato.
Ma l’immagine che voglio lasciare è quella dei frati: non conosco tutti i loro nomi, però ne custodisco i volti nella memoria con una sorta di devoto affetto. Ti accolgono col sorriso, con la cortesia della loro delicata modestia, con la loro allegra disponibilità, senza nulla importi, cercando anzi di offrirti un esempio di vita schivo e umile che diventa libera educazione alla scuola di carità della loro piccola isola. E qui vale la pena di concludere citando le grandi parole della Prima Lettera ai Corinzi di San Paolo: “Se possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla” (13,2).
Testo e foto di Marco Grassano
Didascalie:
– Il sole che tramonta a Saint Honorat
– L’ingresso del convento
– Il sole che sorge a Saint Honorat