Scelga il lettore, Waltz For Debby dell’immenso Bill Evans, il Coltrane di Blue train o di Love Supreme, la coppia Sarah Vaughan-Clifford Brown o a ritroso il piano di Art Tatum o l’incompreso Scott Joplin, ma metta su un cd mentre legge Una storia sociale del jazz – lo consiglia l’autore stesso di questo saggio, Gildo De Stefano, autore di uno studio assai interessante pure non sempre semplicissimo, denso com’è di questioni storiche e soprattutto antropologiche probabilmente ignote alla maggior parte dei lettori.
Ma una storia sociale del jazz a questo mira, alla comprensione di un fatto musicale dai tratti molto peculiari benché sempre meno “puri” nel tempo e nella geografia a partire dall’implicazione di aspetti trasversali che toccano l’economia, la vita quotidiana, il problema individuale e sociale dell’essere neri, il dramma storico della schiavitù – almeno nei momenti sorgivi di questa musica.
Se è pacifico che l’improvvisazione resta all’interno di questo universo musicale un dato imprescindibile, lo sguardo socio-antropologico di De Stefano affonda nella dinamica dei rapporti sociali più disparati in esso contenuti. La dimensione sociale è vasta per definizione; l’approccio di De Stefano è storico e teorico insieme: se aggiungiamo che non sempre sappiamo di cosa parliamo quando parliamo di jazz se ne può evincere che ci troviamo davanti a un’indagine amplissima, di musicisti ma anche di storia della ricezione, della “lettura” che se n’è data nel tempo (le pagine iniziali sono dedicate alla prospettiva eurocentrica e per derivazione non inevitabile razzista con cui si è guardato ai popoli neri).
Invece di isolare – sarebbe impossibile – il côté estetico del jazz, l’autore ne indaga connessioni religiose, rituali, e persino a loro modo politiche. Se vale l’assioma di certa prodromica suggestione africana del drumming, della matrice schiavistica degli hollers che con i loro “richiami” esprimevano il rifiuto della condizione in cui versavano, o ancora il cruciale incrocio con il mondo occidentale nella forma dello spiritual e del blues (che abbassa su un piano secolare e non privo di drammatica ironia la protesta nera), De Stefano critica il noto paradigma dell’origine africana pura e semplice del jazz: i musicisti di New Orleans si rifacevano piuttosto a una “indigena”, occidentale tradizione popolare. “C’è assai più jazz in un violino gitano dell’Europa centrale che non in un gruppo di suonatori di tamburi africani”.
Sino all’impalpabilità di un jazz fluido quale quello odierno – metafora ovviamente rubata a Zygmunt Bauman che firma una piccola prefazione al libro – De Stefano chiude il cerchio che dal mondo va alla musica e da essa torna al mondo attraverso l’analisi di musiche capitali, da Joplin a Miles Davis, da Charlie Parker a Roscoe Mitchell, musicisti che hanno dato meglio di altri, ad avviso dell’autore, un senso alla parola improvvisazione come vera “espressione individuale dell’artista”. Definizione che probabilmente apre più problemi di quanti non ne risolva. La discografia obbligata in appendice è scarna ma ineludibile.
Michele Lupo