“Mia madre è morta lunedì 7 aprile nella casa di riposo dell’ospedale di Pontoise, dove l’avevo portata due anni fa. Al telefono l’infermiere ha detto: ‹‹Sua madre si è spenta questa mattina, dopo aver fatto colazione››. Erano circa le dieci”.
Annie Ernaux ci aveva già dato dimostrazione di saper scrivere in modo puntuale e ineccepibile di tematiche dolorose, dando valenza politica e sociale ai risvolti più celati della propria esistenza, con Il posto (L’Orma Editore, 2014) e Gli anni (2015). Nel 2021 l’autrice francese è tornata in libreria con La donna gelata e ha raggiunto il grande schermo con la trasposizione cinematografica di Audrey Diwan, Leone d’oro a Venezia, del suo libro L’evento (2019).
Con Una donna, testo pubblicato nel 1987 in Francia (Une femme, Éditions Gallimard, Paris) e nel 2018 in Italia, sempre da L’Orma Editore (come gli altri suoi libri prima citati) con la traduzione di Lorenzo Flabbi, Annie Ernaux conferma il suo grande talento.

Un incipit forte e secco. Poche righe e un messaggio diretto, che non lascia dubbi e mostra fin dal principio quale sarà il viaggio che dovremo affrontare.
Annie Ernaux scrive della madre e lo fa partendo dalla fine, dalla morte. La donna del titolo è proprio lei, la signora D., nata nel 1906 a Yvetot, una fredda cittadina della campagna francese. Dalla sua scomparsa comincia un racconto a ritroso nel tempo, che ripercorre le sue origini e la sua esistenza, la miseria contadina, la frustrazione del lavoro da operaia, l’“essere diventata lei” con l’apertura di un negozio di alimentari, gli ultimi dolorosi anni segnati dalla malattia e la morte.
Parole forti. Tre settimane per riuscire a tracciarle su un foglio bianco. Dieci mesi per scrivere senza filtri l’esistenza di “una donna”.
Partire dalla fine
Non ho scritto molte recensioni, anzi, ne ho scritte poche, neanche da potermi definire una principiante, ma mai come in questo caso mi sono trovata in difficoltà. Ho fatto tutto come sempre: lettura, matita alla mano, appunti. Eppure ho passato ore davanti al mio foglio bianco. Scrivi, cancella, riscrivi, elimina tutto. Perché? Forse la storia, l’inevitabile coinvolgimento, la scrittura lapidaria, forse tutto. Per riuscire a mettere insieme le mie frasi, mi ritrovo a seguire l’esempio di Annie Ernaux: partire dalla fine.
“Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo”.
Se l’incipit ha il peso di un macigno, che si posa sul cuore e nella mente, la chiusura del libro è delicata come una carezza, come un bacio appena sfiorato, un addio sussurrato sottovoce all’orecchio. La commozione che questo passo genera è davvero una cosa rara e sconvolgente, non tanto per il dolore che porta con sé, quanto per la lucida consapevolezza dell’autrice che, dopo dieci mesi, ha preso coscienza del fatto che lei, donna e madre, non c’è più.
C’è solo un luogo dove può ritrovarla, al di là dei sogni e del proprio immaginario: se stessa.
Scrivere per rivivere e sopravvivere
Per Annie Ernaux scrivere della madre e della sua perdita è una necessità, un bisogno viscerale, che non può mettere a tacere perché non è capace di fare altro. Passa in rassegna le sue fotografie, una alla volta le estrae dalla scatola e inizia a raccontare le istantanee del suo vissuto, senza omettere nulla.
La vita personale s’intreccia con una vera e propria pagina di Storia, che mette in luce il divario generazionale e sociale presente nella relazione genitore – figlia. L’autrice ritrae perfettamente i tratti peculiari di “una donna” di quell’epoca, dapprima bambina che affronta la miseria, poi ragazza combattuta “tra il desiderio di godersi la giovinezza e farcela da sola”, infine moglie, commerciante, madre.
Una madre scontrosa, talvolta violenta con la figlia, per la quale desidera tutto ciò che lei non ha avuto, partendo dall’istruzione. Un rapporto difficile, fatto di critiche, piccoli gesti ed eccessi. Trova, però, spazio l’amore, spesso taciuto ed esploso sul finire, a coronare quel legame così forte e imprescindibile, anche se spesso vissuto con distacco e insofferenza.
“Questa non è una biografia, né un romanzo, naturalmente, forse qualcosa tra la letteratura, la sociologia, la storia”.
Una donna è un ritratto completo e meraviglioso di due donne, una madre e una figlia, che si fondono nell’amore e nella sofferenza, arrivando a diventare un solo essere. Attraverso le parole e nella letteratura, la figlia riesce a riappropriarsi della figura della madre, a “metterla al mondo” a sua volta, a sentirsi meno sola.
Il valore del “come”
Annie Ernaux scrive in prima persona con lo stile unico che la contraddistingue. Racconta con precisione un’esperienza di dolore, la morte, che tocca indistintamente ogni essere umano. Lo fa ricorrendo a frasi secche, essenziali, ridotte al minimo e quasi del tutto prive di relative. Sembrano scandire lo scorrere del tempo; ogni periodo il rintocco di un pendolo, un passo avanti verso quella fine che ci è già stata preannunciata alla prima pagina.
A questo si aggiungono gli inframezzi che l’autrice pone fra un’istantanea e l’altra, quasi a voler dare una spiegazione al flusso dei suoi ricordi e alla sua esigenza di scrivere. Il testo si carica così di una crescente e dolorosa intensità, la sua memoria diventa la nostra, l’io individuale si trasforma in io universale. Da semplici spettatori di questo viaggio a ritroso nel tempo ci siamo trasformati in protagonisti, complici e custodi dello stesso dolore dell’autrice. E non possiamo che uscirne sconvolti, commossi, consapevoli.
“Non volevo che morisse. Avevo bisogno di nutrirla, toccarla, ascoltarla. Molte volte il desiderio impellente di portarla via con me, di occuparmi soltanto di lei, per accorgermi subito che non ne sarei stata capace”.
Ce l’avresti fatta, Annie. Ne saremmo state capaci.
Ilaria Cattaneo
Annie Ernaux
Una donna
Traduzione di Lorenzo Flabbi
L’Orma Editore
2018, 112 pagine
15 €