Diciamo subito due cose: l’ultimo libro di Péter Nádas, Storie dell’orrore (La nave di Teseo, traduzione di Laura Sgarioto) è bellissimo. In secondo luogo, ed è premessa doverosa per chi non conoscesse lo scrittore ungherese e s’invaghisse del titolo: l’orrore che racconta Nádas non è propriamente ascrivibile al genere horror. Non ci sono, se non in minima parte, gli elementi che i lettori affezionati al genere rincorrono e riconoscono.
L’orrore di Nádas, uno degli autori più importanti degli ultimi decenni, non cerca la scenografica spettacolarità del mostruoso, del sovrannaturale, dell’intrattenimento impregnato di terrore; ma è piuttosto come diffuso per il libro in una sorta di tensione continua e a bassa ma densissima intensità – tranne che per le pagine finali.
Gli spettri al tutto umani del mondo raccontato da Nádas sono intessuti in una trama di pervicace prossimità al quotidiano, come a rivelare nella normalità di banali vite comuni un’epopea di anime nere.
Siamo in un villaggio ungherese negli anni Sessanta, pure il lettore nostrano potrebbe riconoscere la familiarità di un mondo che se non è il suo gli assomiglia – almeno se ha dimestichezza con un microcosmo rurale.
Nato a Budapest nel 1942, fotoreporter e giornalista prima ancora che scrittore (in senso cronologico), critico verso il regime comunista del tempo quanto col capitalismo nella feroce, odierna declinazione oligarchica, con esperienze di scrittura teatrale, Nádas mostra un particolare talento (genio?) nel fare emergere l’orrore dalla consuetudine di esistenze che chiamiamo sbadatamente “semplici” e tali non sono, non solo perché improvvisamente rovesciate in esiti inattesi ma perché la loro cosiddetta normalità – la nostra, se non temessimo i rischi della facile tentazione del ricorso a paradigmi universali – trova nelle parole e nelle immagini di uno scrittore fuori dal comune il modo di rivelarsi per quella sinistra condizione che è (se avessimo tenuto in maggiore considerazione il magistero verghiano, se solo lo avessimo sottratto alla retorica scolastica e avessimo fatto i conti più duramente con l’antropologia del mondo contadino – o comunque intrappolato nel primario, nel biologico più terragno – invece di – ancora la scuola? – immaginarne una bucolica verginità tanto consolatoria quanto mendace, forse ne saremmo meno sorpresi).
Forse la chiave di lettura migliore che anticipa l’orrore più intenso del finale di questo romanzo, quando i vari destini s’incrociano, è il grottesco.
Grotteschi, vitali e cupi sono per lo più i personaggi che sembrano inseguire storie tutte loro, “vite da cani” (nella narrazione polifonica delle varie voci del villaggio non è dato sapere ogni volta chi è che parla), più facilmente inclini a livori reciproci che a scambi affettuosi, dalla vecchia Teréz che resta incinta del suo padrone e vede infranti i suoi bizzarri sogni di serva di aristocratici, dalla domestica Roza, “mugugnona”, afflitta da mali improvvisi ma “forte come una bestia (…) se la portavano dietro dappertutto” – e la frase va intesa in diversi sensi -, al giovane Misike, costretto su una sedia a rotelle ma capace di concepire l’impensabile, di omoni un po’ turpi e fanciulle che credono di resistere a desideri inconfessabili, gente che pare posseduta dal diavolo, medici stupefatti davanti a gente senza mutande, preti che vengono da fuori a spiegare come si dovrebbe vivere ma sembrano interessati solo alle salsicce di carne; e ancora, balordi e strampalati esempi di varia, talvolta ferina umanità.
Una terra i cui abitanti amano e maledicono, piena di “polvere, fatta in buona parte di limo alluvionale nero, di un po’ di detriti vegetali di origine più recente e di fini granelli di quarzo che luccicavano iridescenti”.
Sotto la scorza di una cifra esistenziale immaginabilissima (la fatica) preme una realtà ctonia e crudele, fatta di impulsi insopprimibili, spinte sanguinose verso la soddisfazione di desideri poco commendevoli, indiziari del successivo sconfinamento nella catastrofe.
Quel che conta però, prima e più degli sviluppi ferali delle singole vicende è la lingua che dà corpo al racconto, senza la quale Storie dell’orrore non sarebbe il libro che è: per quel che è dato vedere dalla efficace traduzione, essa crea un campo in cui gli umori forti, sensuali, spesso rabbiosi non solo prefigurano l’apocalisse ma dicono di una realtà tutta stretta materialisticamente dentro una concretezza di carni, spasmi, bave, viscere, urla, un parlar duro, a tratti comico e osceno, persino blasfemo, che non solo facilita la sospensione dell’incredulità ma pare rivelarti l’aliena stranezza della vita.
“La strega Teréz, la Teréz Racchiona, questa fetente, strega, ti potresti almeno affacciare, brutta fetente di una Etelka, troia che non sei altro, manco ci fa caso a quell’altra stordita della Fabius che straparla del signore degli inferi che l’ha segnata oppure no”.
Per dire – personaggi che arrivano, spariscono, poi tornano, come le voci che li raccontano, nervose e sulfuree, qui sta il vero di queste Storie dell’orrore, un vero assai simile all’allucinazione in cui viviamo sebbene possa essere facilmente letto come humus velenoso di una zona del mondo, quella ungherese, tutt’altro che pacificata. Non perdetelo.
Michele Lupo
Péter Nádas
Storie dell’orrore
Traduzione di Laura Sgarioto
La nave di Teseo
Collana Oceani
2024, 528 pagine
28 €