“Si parte. Babbucce. Subito mi fanno un gran male.”
È l’11 settembre del 1930, e comincia così il diario di viaggio di Michel Vieuchange, giovane francese che qualche anno prima, soldato in Marocco, resta fulminato dal fascino del deserto. Quello che gli interessa però è un luogo particolare, la misteriosa e inaccessibile città di Smara, vietata agli stranieri.
Non aveva molti anni di vita, la città, pretendeva un’autonomia che non era solo, o tanto, amministrativa, ma una zona franca dello spirito, un centro-crocevia di nomadi, riti misterici, esorcismi e guaritori. L’impresa di Vieuchange viene concepita col fratello Jean, medico, che decide però di non inoltrarsi sino alla meta; che può essere più utile restando accampato ai confini se l’altro dovesse trovarsi in difficoltà.
Ora, il miraggio, topos del deserto, ha implicato spesso nella letteratura e nella pubblicistica sul tema un approccio sopra le righe, in cui una certa visionarietà pattuita a priori con le aspettative del lettore ha finito per produrre una scrittura al limite del kitsch.

L’avventura, peraltro tragica, di Vieuchange, ragazzo colto formatosi sui classici, è consegnata invece a pagine piegate al dettaglio materiale, concreto, del cammino: impegnativo, non di rado snervante, pericoloso, passo dopo passo, sosta dopo sosta – come fa d’altronde uno scalatore serio che sa di non dover pensare alla cima della montagna, ma a ogni piccolo movimento, uno dopo l’altro.
Perché se Smara è il cuore accecante ma oscuro dell’approdo, il viaggio sta anche nel presente che accade: rischiosissimo, perché è faticoso, duro, fra sete e dissenteria, e può finire da un momento all’altro per mano di un predone. Lo sapevano conoscitori del nord Africa come Jean Genet o Paul Bowles, che colsero il valore del libro. Se un côté letterario ha avuto un ruolo nella decisione di Vieuchange, è stato estremo: quando s’imbatte nelle opere di Nietzsche, Rimbaud o Whitman, la letteratura intesa come bello scrivere, esercizio a-parte della vita, smette di interessargli.
Quei nomi gli aprono orizzonti nuovi, la letteratura tentano di oltrepassarla per cercare un nucleo essenziale della vita. È questo che vuol fare anche lui, a costo di rischiarla. Prova a scrivere romanzi, sceneggiature, disegna progetti mirabolanti con il fratello (è lui, Jean, a raccontarcelo nell’introduzione) ma il fuoco che lo avvampa non è letterario: è un bisogno esistenziale più radicale. L’altrove che va cercando è la vita stessa nelle sue estreme possibilità.
Vieuchange affronta l’impresa con una precauzione: si traveste da donna berbera. Attento a non scoprire la pelle, troppo bianca per essere credibile, deve da subito fare attenzione a gesti e postura, pause e respiro. Il giovane francese descrive ogni dettaglio attraverso frasi brevi che registrano ogni movimento intorno, gli uomini che stanno con lui che si addormentano “con i pugnali a portata di mano”, le donne (“che energia queste donne arabe!”), gli asini stremati, gli sterpi su cui dormire, il cibo da mangiare – spezzatino, per lo più, di solito maleodorante -, e i piedi che fanno male da subito, tormento continuo.
La scrittura è secca, come l’asprezza minerale dello spazio che attraversa. Rocce, sabbia, rovi, vento, pietrame. E poi il gebel, il cielo basso e la luna che gli “rischiara il viso”. E ancora, cammelli, carovane, “piccoli uomini blu, tarchiati come diavoli”: momenti di luce, abbagli improvvisi (forse non casualmente in quei casi la scrittura si distende in frasi più ampie) – la bellezza di “melopee semplici” nella notte del Sahara.
Ma il grosso è fatica, a Vieuchange il travestimento pesa, ha attacchi di rabbia, il sonno è duro a venire, le notti sono fredde. Qualcuna la trascorre togliendosi i pidocchi. Non di rado intercetta sceicchi e bande armate che impediscono di proseguire.
Prende appunti, scatta fotografie, ma Smara, la meta agognata, dà consistenza alla sua volontà. Un’incursione, la definisce a un certo punto, oscillante fra momenti di caduta e sconforto e altri di euforia ma sempre raffreddati, attenti a non subire uno scacco, disposti a scontare quel che c’è da scontare. Gestione del corpo, innanzitutto, cosciente che la natura del deserto impone ritmi e pause precise, e tanta acqua a portata di mano. Perché Smara è un’iniziazione – solo dopo Vieuchange potrà pensare a sé stesso come a un uomo adulto.
Con i giorni l’avventura si fa più difficile, a volte la truppa deve tornare indietro, cercare altri percorsi. La volontà fa i conti con la realtà, e il malessere a un certo punto è tale che il miraggio gli appare addirittura “arido”. Sfiancato da notti insonni e latrati di cani, raggiungere Smara alla fine è questione di ostinazione, quasi senza gioia. E il finale ha del paradossale: l’approdo è quasi un’illusione perché Vieuchange non potrà sostarvi che qualche ora, pagando però un prezzo altissimo. Di cui lasciamo la scoperta al lettore.
L’edizione è splendida, come accade non di rado con Settecolori (numerata, la copertina impressa in Cartoncino Constellation Snow Fiandra Fedrigoni)
Michele Lupo
Michel Vieuchange
Smara
Taccuini di viaggio
Traduzione di Leopoldo Carra
Edizioni Settecolori
Collana Isole nella corrente
2024, 280 pagine
25 €