Nel gennaio del 1926, in vacanza a Parigi, Thomas Mann sembra un uomo disteso, ironico, di buon umore. L’ultima opera, “La montagna magica”, è uscita due anni prima. Le posizioni reazionarie, almeno nella versione apocalittica e urente delle “Considerazioni di un impolitico” sembrerebbero lontane, ma l’ambiguità (“borghese” secondo espressione invalsa e autocertificata) in Mann è inestirpabile.
Le italiche leggi fascistissime stanno chiarendo anche ai più ingenui cos’è l’irrazionalismo che, nonostante la tragedia della Grande Guerra, continua a imperversare in Europa – e il peggio ancora non s’è visto. A quello reagisce Mann, alla sua progressiva e disumanizzante follia, ma il fascino della Kultur non è del tutto sparito – non accadrà nemmeno molti anni dopo, quando sarà alle prese con il “Doctor Faustus”.
Si direbbe che resti un conservatore che pare accettare la democrazia liberale quasi come un male minore, benché le prese di posizione assai frequenti degli anni futuri vorrebbero far credere il contrario. Il dilemma resta, nulla togliendo, al solito, alla felicità della scrittura – che anzi, al solito, ci guadagna assai.

Cosa c’entra tutto ciò con “Resoconto parigino”, il libro appena pubblicato da L’Orma Editore? Intanto, lo stesso editore poche settimane prima aveva licenziato il secondo volume del “Manifesto incerto” di Pajak, e ciò ha fatto scattare nella mente dello scrivente una sorta di agente neurotonico: sai che bomba se Mann avesse incontrato il protagonista del volume di Pajak, Walter Benjamin, che a Parigi viveva anni di stenti, e scrisse in una lettera: “Ho odiato quest’uomo come pochi altri, ma ora lo sento addirittura vicino a me, dopo il suo ultimo grande libro, La montagna magica“?
Rispetto all’immagine che ne dà Pajak, la Parigi di Mann è certo più convenzionale, riconoscibile all’immaginario più classico. Vi trascorre giorni assai pieni, fatti di pranzi, cene, visite, passeggiate, conferenze, teatro. E il ragionamento attorno ai temi citati all’inizio rivive a ogni occasione.
Mann esibisce un tono disinvolto, tanto nella scrittura del breve diario di viaggio (benché parli di “pagine turbolente”) che nei suoi incontri (benché denunci il contrario quando dimentica un appuntamento con Mlle Weiss dell’Europe nouvelle: “la goffaggine con cui maneggiavamo la materia sociale”); assapora “la dolce aria di Parigi, satura di sole pallido e di nebbia argentata”, il cibo, la generosità di scrittori e critici (una cosa che gli “scalda il cuore”), le belle case in cui lo invitano (meno quelle degli esuli russi, poverini, o lo strazio delle “sedute fotografiche”). La sola cosa che davvero lo mette in difficoltà è attraversare la strada, impresa sempre disperata.
Si diceva, i grandi temi, le nazioni e le rispettive letterature, i conflitti, la diversità fra tedeschi e francesi e una certa idea dell’Europa, costituiscono il continuum vero dei suoi incontri e delle sue riflessioni.
A smorzare la classica e assai manniana opposizione fra Kultur e Zivilisation ci pensa l’appeasement dei critici, a partire da Maurice Boucher – si tratta spesso di “convenzioni” dice Boucher, basterebbe pensare alla musica: “simbolo perfetto delle profonde inclinazioni dell’anima – e in quale paese straniero la musica tedesca ha trovato un’eco maggiore che in Francia?”.
O Charles Du Bos, che nel suo discorso dal carattere “sacerdotale” trova delle affinità fra Mann e “Il cimitero marino” di Paul Valéry – o addirittura con l’imbarazzante, antisemita Maurice Barrès. “Le cose mi andavano a gonfie vele” – scrive Mann, fra il sornione e l’estasiato, – “a quanto pare somigliavo un po’ a tutti”. Insomma, gli fanno tanti e tali complimenti che esagera anche lui, Mann, e finisce col ricambiare “il salamelecco”.
In lui da anni vacilla quella drammatizzazione fra l’idea di un “senso profondo e totale della vita” (Magris) contrapposta al razionalismo dei francesi ma apprezza che essi ora sembrino rinunciare alla presunta superiorità della “civilizzazione latina” (e ne ammira l’eleganza, tratto nazionale). D’altro canto, Mann ribadisce “l’assurdità insita nell’idea che il popolo di Goethe possa davvero essere considerato nemico dell’umanità”, che il romanticismo tedesco non è per forza di cose destinato a un approdo funebre (quella sarebbe una sua degenerazione).
Conviene con i suoi interlocutori che occorra “rafforzare e consolidare la simpatia fra i due popoli” ma l’universalismo dettato dalla ragione, a quello, Mann non crederà mai sino in fondo. A una compiuta democrazia? Nemmeno, meglio una dittatura illuminata. Il pacifismo lo perplime, ancora più i propositi edificanti riguardo l’arte: “La santità e la mitezza non producono quadri”.
Attraversa il Louvre senza approfondire troppo. Incontra anche scrittori russi, tutti immancabilmente fuggiti dal bolscevismo e scontenti però dell’esilio francese, Šestov, Bunin, Šmelëv (di cui da noi sta per uscire “Il sole dei morti”, da Bompiani). È l’incontro con quest’ultimo che ci dà modo di tornare all’ambiguità di Mann e capire quanto sia controproducente vedervi un limite piuttosto che un vantaggio: all’invettiva dello scrittore russo contro i bolscevichi colpevoli di stragi immani, Mann risponde che certo è vero, ma la prima guerra mondiale l’avevano voluta i borghesi, e i morti furono assai di più.
La concessiva in Mann è un abito mentale: se questo ne fa l’antitesi di un eroe, contribuisce alla sua grandezza di scrittore. Non fu forse l’ironia, ambigua per definizione, a salvarlo dal gorgo del nazionalismo più becero che si rafforzava in quegli anni?
Nell’ultima occasione mondana prima di rientrare in Germania, una signora italiana lo informa che il regime di Mussolini sta preparando la guerra contro la Francia; Mann al ritorno scriverà: “Trovavo decisamente ambizioso da parte dell’Italia pensare di poter riportare la prima vittoria militare della sua storia proprio contro la Francia, e difatti i francesi lì raccolti sorridevano sotto i baffi”. Anche il ritorno sull’Orient-Express gli sarebbe stato dolce, “un treno nobile, il re delle ferrovie”.
Michele Lupo
Thomas Mann
Resoconto parigino
Traduzione di Marco Federici Solari
L’Orma Editore
2021, 136 pagine
16 €