Con la consueta eleganza della veste editoriale ma facendo un’eccezione al proprio catalogo, L’Orma Editore si cimenta con la poesia mandando in libreria una cospicua antologia di Paul Celan. Non è tutto nuovo di zecca nell’operazione, perché la traduzione è affidata a Moshe Kahn, primo e per così dire accreditato traduttore del poeta. Traduzione però rivista rispetto alla storica edizione dello Specchio Mondadori, con l’aggiunta di testi postumi.
Gli esperti conoscono le vicende legate alla problematicità del lavoro di trasferimento (reinvenzione? È possibile reinventare la poesia di Celan? È questo che egli avrebbe voluto?) dalla versione originaria di Celan all’italiano, problematicità cui hanno contribuito lo stesso poeta, che aveva scelto Kahn come traduttore non facendo mai mancare però l’ombra di un inquieto controllo – peraltro brevissimo: morì, suicida, tre mesi dopo aver incaricato Kahn – e, viceversa, le controverse traduzioni di Giuseppe Bevilacqua: trattandosi di poesia, non sono questioni di poco conto, anzi (ben lo sapeva del resto lo stesso Celan, nato in Romania da genitori ebrei, poliglotta, poeta di fughe ed esili, traduttore a sua volta di Char, Mandel’štam, Lermontov e altri).
Quanto per esempio è stato determinante per la ricezione ai limiti del sacrale che ha contrassegnato la lettura di Celan l’impostazione aulica, enfatica di Bevilacqua, peraltro tutt’altro che apprezzata dall’autore?
Moshe Kahn ancor più in questa nuova edizione ha lavorato per sottrarre solennità posticcia a un’opera la cui forza dirompente non ha bisogno di mascherature retorizzanti, di supplementari toni apocalittici: quelli che lo hanno trasformato in una voce sapienziale ultima e definitiva. Il che, non lo si dovrebbe dire/pensare nemmeno di Dante.
Pure le vicende biografiche, riferibili a un poeta ebreo in esilio, alla morte dei genitori per mano dei nazisti, la scelta di scrivere comunque nella lingua dei criminali nonostante in una delle sue poesie più note, Fuga di morte, contenuta nella raccolta Papavero e memoria scriva, “la morte è un maestro tedesco” – non ultimo, il suicidio: tutto questo ha dato probabilmente man forte a un certo approccio, virando via dal quale come e dove ha potuto Moshe Kahn ha provato a restituire l’intenzionalità invocata da Celan di un dettato meno esoterico e ampolloso, più prossimo a una maggiore dimestichezza con lo scarto quotidiano, l’accidente sospeso fra lettera e metafora, contingente.
Ma anche questo è vero solo in parte, tanto Celan cerca, invoca l’altro, i lettori, quanto è consapevole che non di rado lavora al limite, al limite del dicibile – non c’è bisogno di riesumare Adorno e il suo interdetto sulla poesia dopo Auschwitz: l’operazione sulla parola ultima, la più prossima al nucleo veritativo dell’esperienza atroce per eccellenza, deve continuamente evitare il rischio di una sua messa in posa (nichilistica, innanzitutto, come gli rimproverava ad esempio Primo Levi).
Cosa che Celan negli esiti migliori schiva da par suo, allineando i segni più netti della materiale abiezione cui vengono sottoposti gli internati del lager, traducendo con magistrale forza espressiva, ritmica e ossimorica la loro reificazione e così facendo, non solo smentisce Adorno ma rimette l’umano in vita, prima che la poesia stessa. È la parola, nominando l’inferno, la via per superarlo.
Ora, che il crinale esegetico sia stato costante nella lettura del poeta si comprende anche dal racconto autobiografico che chiude il volume a opera di Helena Janeczek, che ricorda come fu uno dei nostri migliori poeti del tempo, Vittorio Sereni, a cogliere nell’opera di Celan “una sostanza molto diversa” dal presunto stile declamatorio assegnatogli da altri.
Così Kahn, che sa come nel cupo poeta sacro (come è stato fatto passare), non casualmente studiato da filosofi, possano trovarsi versi come questi: “Ci sarà un occhio ancora,/ uno estraneo, accanto/ al nostro: muto/ sotto una palpebra di pietra” (in Fiducia, da Grata di linguaggio).
A prevalere si direbbe la disponibilità a un registro variegato, certo non uniforme, che richiede un’attenzione al dettaglio scevra di soluzioni aprioristiche, il che non toglie nulla al cuore tragico di questa poesia.
Il recupero di un tono lirico può convivere con immagini oscure, aperte su vertiginose voragini di senso (perché è la lingua stessa a essere sopravvissuta ma in guisa di lacerti, frammenti, macerie della tragedia: a fronte di “occhi alla cecità persuasi (…) venisse un uomo al mondo, oggi con/ la barba di luce dei/ patriarchi: dovrebbe/ se di questo tempo/ parlasse, egli/ dovrebbe/ solo balbettare e balbettare/ continua-, continua-/ mentete”); ma non teme il confronto con un presente concreto, tangibile, a indicare una varietà di pronuncia nella poesia celaniana che dovrebbe finalmente costituire un dato acquisito: “Il mio occhio scende al sesso dell’amata:/ ci guardiamo,/ ci diciamo cose oscure,/ ci amiamo l’un l’altro come papavero e memoria/, dormiamo come vino nelle conchiglie,/ come il mare nel fiotto di sangue della luna”.
Non erano ancora arrivati i lugubri fantasmi del male psichico che gli avrebbero spezzettato la dizione in versi sempre più essenziali e lo avrebbero distrutto pian piano, fino alla propria, autoindotta soluzione finale.
Michele Lupo
Paul Celan
Poesie
Traduzione di Moshe Kahn, in collaborazione con Marcella Bagnasco e Vittorio Tamaro
L’Orma Editore
2024, 384 pagine
30 €