Il settimo capitolo di Giuseppe in Egitto, terzo libro della tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann, s’intitola La fossa. Racconta di come il figlio di Giacobbe sperimentò di nuovo la caduta, questa volta per opera di una donna, Mut-em-enet, la moglie di Potifarre, da lui respinta. Bigliettini dolci è il nome della prima parte del capitolo e un breve messaggio in geroglifici è il modo con cui la padrona di casa – dopo aver tentato altre vie meno dirette – comunica al giovane schiavo l’invito (cioè l’ordine) di giacere con lei. Ecco cosa scrive Mann:
Tale scrittura, nella graziosa concisione dei suoi segni che lasciano mute le vocali, con i suoi geroglifici disseminati ovunque che suggeriscono la classe di concetti veicolati dai suoni evocati in modo stringato dalle consonanti, conserva sempre qualcosa di un rebus magico, è una fiorita dissimulazione a mezzo, una mascherata argutamente logogrifa e sembra fatta apposta per la composizione di bigliettini dolci: le cose più semplici e dirette vi acquistano un aspetto oltremodo allusivo e ricco di spirito. Il passo culminante della comunicazione di Mut-em-enet, il punto più salace e decisivo, consisteva in tre fonogrammi, preceduti da altri non meno graziosi e seguiti dal geroglifico sommariamente schizzato raffigurante un letto con la testa di leone, su cui giaceva una mummia. Il rebus aveva il seguente aspetto:
e significava “giacere” o anche “dormire”. Nella lingua di Keme è un vocabolo solo; “giacere” e “dormire” sono raffigurati dallo stesso segno nella scrittura e nell’insieme la riga del bigliettino, firmata con l’ideogramma dell’avvoltoio che stava per “Mut”, suonava chiara, inequivocabile: «Vieni, regaliamoci un’ora di sonno».
Fabrizio Cambi, nelle note all’edizione dei Meridiani Mondadori, spiega che Mann – che pure conosceva la scrittura geroglifica – affidò la composizione dell’ideogramma all’egittologo Alexander Scharff (1892-1950).
Ecco: “rebus magici” sono agli occhi dei tanti appassionati dell’antico Egitto i geroglifici che ne accompagnano la plurimillenaria storia. Ma non è solo a questa particolare forma di scrittura egiziana, bensì al loro insieme (geroglifica, ieratica, demotica e copta: è stato grazie allo studio del copto, e non soltanto alla Stele di Rosetta, che Jean-François Champollion riuscì a decifrare i geroglifici) che è dedicata la mostra “Il dono di Thot: leggere l’antico Egitto” che si apre oggi, 7 dicembre 2022, al Museo Egizio di Torino.
Non solo geroglifici
Curata da Paolo Marini, Federico Poole e Susanne Töpfer, con il contributo di Enrica Ciccone e Alessandro Girardi, espone ben centosettanta pezzi, tra papiri e steli, vasi, ushabti e statue (intere e frammentarie), documenti – come le schede del Dizionario geroglifico, alfabetico per caratteri fonetici, e metodico per caratteri figurativi e ideografici-simbolici di Ippolito Rosellini, prestato dal Fondo Storico della Biblioteca Universitaria di Pisa – e oggetti di vita quotidiana, come le fiasche del Nuovo Anno.
Tutti i reperti provengono dalle collezioni del Museo Egizio, tranne le tavolette cuneiformi, arrivate in prestito dai Musei Reali di Torino. (Lo dico tra parentesi: dopo aver visitato la mostra sono andato proprio ai Musei Reali, dai quali mancavo da qualche anno. Che sorpresa vedere il nuovo allestimento della Galleria Archeologica! Ho apprezzato in particolare proprio la sala dedicata alla scrittura nel Vicino Oriente antico).
Ma torniamo all’Egizio: diciassette sono i papiri in mostra, tra cui il Papiro dei Re (XIX dinastia) e il Papiro della Congiura (XX dinastia). Una selezione volutamente limitata, è stato detto in conferenza stampa, ieri mattina. Il Direttore Christian Greco ha poi svelato il dietro le quinte della motivazione, ovvero la necessità di rimodulare il progetto scientifico imposta dall’impossibilità di disporre tutto il materiale previsto nel piano originale: c’era il rischio di cedimenti strutturali.
Piuttosto che rinunciare alla mostra (sarebbe stato uno smacco proprio in occasione del bicentenario della decifrazione dei geroglifici da parte di Champollion!), si è deciso di allestirla nei nuovi spazi del Museo. L’ingresso si apre sul lato destro della biglietteria, cui seguono 500 metri quadrati tra piano terreno e ipogeo, concessi al Museo dall’Accademia delle Scienze.
Scrittura performativa
Il percorso espositivo è tematico e non cronologico, tranne nella sezione dedicata all’evoluzione della scrittura. Tanti sono i testi da leggere, con attenzione: didascalie e pannelli, tutti ben fatti. Si chiude volentieri un occhio sugli spazi saltati nella traduzione del rigo 24 dell’iscrizione incisa sul dorso della statua del faraone Horemheb e della regina Mutnedjemet, in granodiorite, dal tempio di Amon a Karnak, XVIII dinastia.
Vi si legge: “Ha cercato tutti i santuari degli dèi ridotti in rovina in questo Paese e li ha restaurati così com’erano dal tempo antico. Ha istituito per loro regolari offerte quotidiane, e tutti i recipienti dei loro santuari”.
L’esposizione del “lato B” della statua è una delle scelte più azzeccate dell’attento allestimento di questa mostra che, nelle parole di Evelina Christillin, Presidente della Fondazione del Museo Egizio, è tutta home made, fatta in casa, grafica compresa. E allora il visitatore si conceda il tempo di leggere e approfondire, partendo dalle citazioni alle pareti. La prima viene da un elemento architettonico della scala di accesso a un tempio della divina adorata da Akhenaton, il faraone “eretico”: “Ra-Harakhty che sorge all’orizzonte nel suo nome di luce che è nel disco solare (=Aton)”.
Geroglifico è un termine che unisce le parole greche che significano “incisione sacra”. Gli Egizi invece chiamavano questa loro particolare scrittura medu-netjer, ovvero “parola di dio”. Durante tutta la visita – e poi in seguito lungo tutto il percorso che squaderna le collezioni del Museo Egizio – è bene tenere conto di quanto riporta uno dei pannelli dedicati alla scrittura geroglifica: “Ha una funzione innanzitutto “performativa”, rituale e magica: non documenta o racconta semplicemente la realtà, ma la determina e influenza”.
Così si faccia attenzione ai geroglifici con il disegno di una vipera cornuta con la testa mozzata nella stele di un arciere e sua moglie (datata al Primo Periodo Intermedio, 2118-1980 a.C.). C’erano infatti geroglifici pericolosi e altri benefici, utilizzati nelle formule magiche.
Dire l’indicibile
Nel Papiro della Congiura gli scribi provano a dire “l’indicibile”: il tentativo di uccidere il faraone! Ma l’attentato non viene mai nominato apertis verbis, per timore che la sola menzione potesse in qualche modo rendere concreta la minaccia. Come sovrappiù di pena, alcuni dei colpevoli si vedono storpiato il proprio nome, come “Mer-su-ra” “Ra-lo-ama”, chiamato sprezzantemente “Mesed-su-ra” “Ra-lo-odia”.
Eppure non sfuggano le – per quanto deboli – prove di garantismo che si possono leggere nelle linee 8-9: “Ma [io] avevo dato [loro] istruzioni: «Badate, state attenti a non permettere che sia punito qualcuno erroneamente da qualcuno che non è al di sopra di lui». Così dicevo loro in continuazione”.
Testimonianza di tempi turbolenti sono altri reperti, come il portale di una tomba tebana, in calcare, tolto dai magazzini del Museo. Durante la visita guidata il curatore Federico Poole ha sottolineato un aspetto della scrittura geroglifica: veniva sempre armonizzata con lo spazio architettonico. In questo caso sul lato sinistro del portale i geroglifici sono rivolti verso destra e all’opposto nell’altro lato, in modo da risultare più facili da leggere a chi entrava.
Sulla parte superiore sono stati abrasi il volto, le mani e i piedi del defunto per annullare le sue capacità di muoversi ed esprimersi, la sua esistenza. Visto che lo stile del manufatto lo colloca nell’epoca di Amenofi III, padre e predecessore di Akhenaton, è possibile avanzare l’ipotesi che il defunto fosse un lealista del dio Amon che si trovò nella parte sbagliata della guerra civile, nella campagna iconoclastica promossa dal faraone monoteista contro gli dèi del pantheon egizio e in particolare contro il potentissimo dio di Tebe. Il suo nome fu cancellato e poi inciso nuovamente sul dorso della statua di Hapu, terzo sacerdote lettore di Amon. Poole ha richiamato l’attenzione dei giornalisti sul plurale “dèi”, rappresentato da tre stendardi.
“Il dono di Thot” è dunque una mostra da “leggere” con attenzione per goderne appieno. Proprio come il romanzo-monumento di Mann.
Saul Stucchi
Il dono di Thot: leggere l’antico Egitto
Informazioni sulla mostraDove
Museo EgizioVia Accademia delle Scienze 6, Torino
Quando
Dal 7 dicembre 2022 al 7 settembre 2023Orari e prezzi
Orari: da martedì a domenica 9.00 – 18.30Lunedì 9.00 – 14.00
Biglietti: intero 15 €; ridotto 12 €
Per altre riduzioni consultare il sito del Museo