Chissà se siamo arrivati davvero alla fine di una lunghissima storia che ha ritenuto di dover separare la conoscenza umanistica da quella scientifica, frattura di cui libri come quelli di Benjamín Labatut, sebbene ascrivibili al genere romanzesco, mostrano tutta l’inconsistenza.
Col recente Maniac (ottimamente tradotto da Norman Gobetti per Adelphi, ne hanno ormai scritto in tanti) anche i più recalcitranti hanno l’occasione per verificare come il mondo scientifico sia un precipitato fenomenale di immaginazione, che spesso conosce gli stessi fantasmi dell’arte e da ormai un secolo sconfina in territori tutt’altro che confortanti, sì da rendere non più credibile la massima del cubista Georges Braque secondo la quale “l’arte serve per turbare, la scienza per rassicurare”.

Con Labatut siamo di fronte a fiction ibride, storie sospese fra scienza e chimere allucinate, i cui personaggi sono reali; in questo caso si tratta di un trittico che comincia con la storia di Paul Ehrenfest. L’incipit non è solo mirabile in sé ma, come dovrebbe ogni incipit, dà la misura e il tono del libro: “La mattina del 25 settembre 1933 il fisico austriaco Paul Ehrenfest entrò nell’istituto pedagogico per bambini infermi del professor Jan Waterink a Amsterdam, sparò in testa al figlio quindicenne Vasilij, poi rivolse la pistola contro se stesso”.
Il fatto è vero, il ragazzo era affetto da sindrome di Down, e la psiche del padre, di fronte agli esplosivi mutamenti della matematica di quegli anni, affacciata su un mondo ormai tutto probabilistico, privo di certezze, da tempo aveva preso a sbandare. Ehrenfest scopriva dalle ricerche introno a lui aspetti della realtà sempre più assurdi, incomprensibili, incontrollabili: classico caso, per Labatut (ne ha parlato anche nei recenti incontri italiani dal vivo), in cui il bisogno di conoscenza diventa una maledizione, una pena.
Ehrenfest aderisce in pieno a uno stereotipo consolidato quanto cogente ad avviso dello scrittore cileno: l’inclinazione a un pensiero profondo difficilmente pare disgiungibile da una tendenza alla malinconia se non alla depressione. Era il suo caso: “una mente porosa”, facilmente aggredibile da pensieri cupi, e insieme una grande capacità di lavorare con i suoi sodali, da Niels Bohr a un certo Einstein (Ehrenfest tentò di mediare fra due posizioni inconciliabili, quella dell’arrembante meccanica quantistica e il rifiuto fermo che vi opponeva il padre della relatività: lui era per la prima ma ne rimase sconvolto).
L’abisso di irrazionalità in cui le ultime acquisizioni scientifiche sembravano gettare il mondo gli pareva (e di sicuro Labatut è bravissimo a creare quell’effetto) simile al funereo incedere del nazismo per le strade tedesche. Sebbene Ehrenfest non fosse il più geniale di tutti, la sua fame di conoscenza non era inferiore a quella di nessuno, nemmeno a quella del protagonista principale del libro, John von Neumann, primo fra i primi di una congerie di scienziati ungheresi che avrebbe segnato in maniera irreversibile la ricerca novecentesca.
Nel suo caso, la vertigine della conoscenza, una sorta di maledizione che spesso l’accompagna, la malinconia funerea cui si può approdare dopo anni di ricerche e spaesamenti improvvisi si trasforma in altro, in una hubris ilaro-tragica della ricerca per la ricerca (o della tecnica per la tecnica? direbbero i filosofi), svincolata da qualsiasi considerazione etica.
Qui la vicenda biografico-scientifica viene raccontata da amici, colleghi, mogli – una struttura polifonica che si traduce in un diorama di scene pubbliche e private che restituisce egregiamente il senso che sta al cuore dell’impresa, un quadro ben più inquietante rispetto a quello di Ehrenfest. Vediamo von Neumann – uomo totalmente fuori dal comune – da ogni angolazione possibile, privata, sentimentale, scientifica.
Von Neumann era il tipo di scienziato faustiano (detestato da Ehrenfest), spregiudicato come nessun altro nell’oltrepassare i limiti etici fra la teoria e la pratica – oltranza che avrebbe potuto distruggere il mondo. Von Neumann è la sigla di una mente e di un carattere ingovernabili, capaci di emergere in regni diversi, informatica, fisica sub-nucleare, teoria dei giochi e troppe altre cose.
Cooptato dalle forze militari americane fu tra i più accaniti sostenitori della fabbrica mortale del “Progetto Manhattan” (Los Alamos ormai pare un luogo privilegiato per scrivere storie) e delle ricerche più spregiudicate nel campo, senza alcuna remora verso le sue mortali applicazioni, anzi: il calcolo per causare il maggior numero di morti a Hiroshima e Nagasaki fu opera sua, come la convinzione di dover sempre sparare per primi – i militari americani impazzivano per lui, se non fosse che non si trattava di sparare proiettili ma bombe.
E lavorando ai calcoli per la bomba, inventa la macchina che dà il titolo al libro, potenzialmente un ordigno in grado di far ripartire la terra da zero, dove lo zero sta, nel delirio di von Neumann, nella capacità del suo calcolatore di riprodurre biologicamente forme di vita, o, forse, più realisticamente nel farci trasmigrare in un regno postumano, quello che si approssima sempre più minaccioso nell’ultimo capitolo, dedicato a Lee Sedol, il più grande giocatore di Go dell’epoca moderna.
Il geniale coreano apprende a proprie spese che i computer imparano a giocare meglio degli umani e, aggiungerebbe Labatut, stanno diventando armi più pericolose della bomba atomica. Sedol, una volta constatato che l’intelligenza artificiale è più brava di lui, chiude la sua carriera, rinuncia.
L’uomo soccombe rispetto alla macchina, all’intelligenza artificiale – se il dato fosse incontrovertibile, dovremmo sentirci tutti convocati a una prova che assume i caratteri del destino, non più individuale, ma della specie.
Michele Lupo
Benjamín Labatut
Maniac
Traduzione di Norman Gobetti
Adelphi
Collana Fabula
2023, 361 pagine
20 €