“Lenin”, il nuovo libro di Guido Carpi pubblicato da Stilo Editrice nella collana “Pagine di Russia” diretta da Marco Caratozzolo, ha un sottotitolo che dice quasi tutto: “La formazione di un rivoluzionario (1870-1904)”. Rivela anche che ci sarà un seguito.
Questo primo volume accompagna infatti il lettore lungo il percorso iniziale della carriera politica di Lenin che si arresta all’alba del 1905. Se dovessimo condensare questo lungo tratto in una sola parola-chiave, sceglieremmo “teoria”, anche perché al secondo volume – immaginiamo – sarà da abbinare “prassi”.
Epperò quanta prassi emerge già qui e – continuiamo a immaginare – quanta teoria innerverà la prassi della Rivoluzione d’Ottobre! D’altra parte il principio a cui si atterrà sempre lo stesso Lenin sarà proprio: “prima fare, poi teorizzare”.

Da Tolstoj a Tolstoj
Confesso di non conoscere l’autore, né posso dirmi esperto di storia sovietica e più in generale russa. Le note che seguono, quindi, vanno lette come osservazioni di un semplice lettore curioso (ben consapevole, peraltro, che i lettori curiosi non sono mai “semplici”).
Mi ha stupito innanzitutto la dedica in esergo (e non solo per l’ironia), abbinata a una pregnante poesia di Majakovskij. Non ve le rivelerò: dovrete scoprirle leggendo il libro! Qui posso dirvi invece che esso si apre e si chiude sotto il segno di Tolstoj, ed è tutt’altro che un caso. Tanto per cominciare Lenin si definiva “letterato”.
Lo racconta Carpi proprio all’inizio dell’Introduzione, spiegandone bene il vero significato nel contesto della Russia tardo ottocentesca: “Ecco perché in Russia il letterato travalica di continuo il confine fra la produzione di ‘storie’ (quale che sia in esse il tasso di fiction esplicita), la predicazione e un diretto vissuto che spesso assume la forma di un qualche tipo di militanza”.
Strettissimo il legame tra il “letterato” e il “militante”, tanto per Lenin quanto per lo stesso Carpi, con il testo pensato come “un GPS per anime” (sperando sempre che non si trasformi piuttosto in un “GPU”, progenitore del più celebre “KGB”…).
Formidabili quegli anni
Nelle oltre duecento pagine a seguire l’autore ripercorrerà le tappe della formazione di Lenin, partendo dal “melting pot delle steppe” che fu all’origine della sua famiglia. Le convinzioni del padre Il’ja Ul’janov e il di lui matrimonio con Marija (“una miscela esplosiva di classi, nazionalità e condizioni materiali: comprendeva nobili e servi, Europa e Asia, commercianti e poveracci”, per citare Robert Service) s’intrecciano con l’estate folle dell’andata al popolo del 1873-74 e il regicidio di Alessandro II nel 1881. E poi l'”ombra oscura stampata nell’anima” di Vladimir: l’impiccagione del fratello Aleksandr.
Se questi leggeva Marx ed Engels, Volodja passava invece il tempo sulle pagine di Turgenev, disinteressandosi di politica, finché la tragedia familiare non lo svegliò alla realtà. Lettura fondamentale fu il “Che fare?” di Černyševskij, tanto amato dal fratello. A tappa segue tappa, nella carriera scolastica (dall’ammissione all’università di Kazan’ all’espulsione) come nella vita familiare: quattro anni esatti dopo la morte di Aleksandr viene a mancare l’altrettanto amata sorella Ol’ga.
Segnato dal soprannome di “Vecchietto” perché musone, Lenin va a Pietroburgo mentre la famiglia si trasferisce a Mosca. Nella capitale sul Baltico entra nel grande giro della sovversione cittadina, ma solo dopo aver superato l'”esame di ammissione” dei “marxisti metropolitani” (“formidabili quegli anni”, verrebbe da pensare, per come li racconta Carpi).
Tra le pagine più interessanti del libro segnalo quelle dedicate all’analisi dello stile di Lenin. Qui come altrove Carpi ricorre spesso a termini giovanil-giovanilistici e a riferimenti alla cultura pop: meme, fantasy, mood, surfer, avatar…
Un mestiere pericoloso
Un’altra osservazione riguarda la dovizia di aneddoti e di dettagli anche umoristici che l’autore dissemina lungo la strada, come la tinta di Babuškin che trascolora in un imbarazzante lampone e i problemi di camuffamento di Vera Vasil’evna; la conversazione surreale in pseudo-svedese per le strade di Bruxelles e i teppisti delle baby gang londinesi che bullizzano i delegati del Congresso. Ah, le cotolette di Ol’ga Borisovna! Le pagine sulla scelta dei nomi di battaglia non sfigurerebbero in un romanzo di Le Carré.
E se per un certo periodo sembrò che la rivoluzione andasse in vacanza, insieme agli studenti di sinistra che se ne tornavano a casa durante l’estate, non s’inganni il lettore di questa recensione: l’inesausto gioco di guardie e ladri tra poliziotti e militanti era sì “una palestra di fantasia, coraggio e perseveranza” per questi ultimi, ma anche un’attività dannatamente pericolosa.
Fallire in una missione significava anni di prigione, quando andava bene… Aderire alla causa implicava sottoporsi a un duro allenamento che non si interrompeva neppure in carcere. Ristretto in isolamento, Lenin praticava esercizi ginnici e confezionava minuscoli calamai di mollica per scrivere messaggi e volantini con inchiostro di latte.
In poco più di trent’anni succede di tutto: deportazioni e trasferimenti, il fidanzamento con Nadja Konstantinovna (lei stessa pronta ad abbandonare la “fragilità di un onesto stare a galla”, con citazione neanche troppo occulta di una celebre canzone dei 99 Posse), la Triplice Alleanza con Martov e Potresov, l’estenuante ricerca di finanziamenti, crisi e momenti di debolezza (con tanto di fuoco di Sant’Antonio!), ma anche un mese di trekking estremo in Svizzera per staccare un po’ nel momento più nero.
Lezione di pragmatismo
Carpi rievoca la nascita di un nuovo tipo di militante, rivoluzionario di professione impegnato a tempo pieno nella causa. Si sofferma sul “nucleo vitale” del futuro bolscevismo, ovvero “la centralità del momento politico”. Racconta il ruolo degli intellettuali e la caccia all’uomo in cui s’impegnarono bolscevichi e menscevichi, per “acchiappare gli attivisti appena arrivati dalla Russia e sottoporli a un serrato lavaggio del cervello”.
En passant trova il tempo per dare una stoccata al Bulgakov di “Cuore di cane” e proporre una similitudine tra le masse di contadini impegnate nella migrazione stagionale, in viaggio su zatteroni di legno, e i migranti africani di oggi che attraversano il Mediterraneo su barconi altrettanto di fortuna.
Durante la lettura mi sono venuti almeno un paio di dubbi. La formula sacramentale “è necessario delimitarci prima di unirci” non è il peccato originale della sinistra e del pulviscolo o poltiglia che ne resta? E l’autore non concede un po’ troppo credito alla “necessità di elaborare una duttilità tattica e un proteismo politico” di Lenin?
Il pragmatismo con cui l’apostolo della Rivoluzione organizza e gestisce la rete di agenti fiduciari disposti a diffondere il nuovo verbo (“noi non creiamo il «materiale umano», prendiamo e non possiamo far altro che prendere ciò che ci si dà“) mi pare che assomigli molto all’inestinguibile spirito democristiano. “Dobbiamo fare la messa con i frati che abbiamo”, ha detto recentemente Tabacci. Non me ne vogliano Lenin e l’autore (né Tabacci).
Saul Stucchi
Guido Carpi
Lenin
La formazione di un rivoluzionario (1870-1904)
Stilo Editrice
Collana Pagine di Russia
2020, 246 pagine
18 €