“Gli storici dicono che Kafka ebbe un ruolo importante nella Primavera di Praga, perché a partire dal convegno su Kafka tenutosi a Liblice nel 1963 lo scrittore praghese divenne la chiave interpretativa di numerosi dibattiti sull’uomo e sulla società, sullo straniamento e sul socialismo – un dibattito segreto sulla violenza dello Stato.”
Tutto ciò lo scrive Katja Petrowskaja nel recente La foto mi guardava (tradotto da Ada Vigliani per Adelphi) non per parlare propriamente di Kafka come è d’uso in questo periodo per il centenario della morte – seppure il grande praghese ritorni ancora in altre pagine – ma per un rimando immaginativo a partire dalla fotografia di un uomo.
Perché questo è lo schema (mobilissimo) del libro della Petrowskaja, ricuce e rivede momenti della piccola e grande storia novecentesca attraverso un armamentario di immagini le più varie, ribadendo la vocazione a un investimento ermeneutico non scontato in direzione della storia passata ma anche di ciò che in essa simbolicamente pare se non rovesciarla revocarla in dubbio.
Per la scrittrice nata in Ucraina da famiglia ebraica, ora stanziata in Germania, c’è un mondo per così dire reale e uno in qualche modo possibile. È forse più il secondo che il primo a emergere da queste pagine – la lettura di un livello ulteriore rispetto a quello suggellato negli scatti (settanta) che compongono la parte visiva del testo, forme insieme documentarie e interrogative dei soggetti fotografati, sospesi nella rilettura che ne fa l’autrice. Che nell’arco di sei anni ha pubblicato e commentato su un quotidiano tedesco fotografie ripescate in vario modo sull’abbrivio di un’immagine che la colpisce particolarmente nel 2015: un minatore del Donbass, casco e sigaretta in bocca che soffia fuori una nuvola di fumo che ne sfuma e confonde i tratti del volto, poco a ridosso dell’inizio del conflitto fra Russia e Ucraina (2014).
Lo sguardo del minatore non è solo rappresentazione ma a sua volta una domanda rivolta a chi lo guarda, indeciso/a se leggervi disperazione, angoscia, rabbia. Occasione per Petrowskaja per riflettere sulla natura e i limiti dell‘estetica (della rappresentazione) prima, e della sua declinazione possibile da un punto di vista – se non par troppo – etico, poi: cosa resta da fare all’arte, segnatamente alla letteratura, di fronte alla tragedia?
L’autrice, come sa chi la conosce dalla pubblicazione del suo libro precedente, Forse Esther, pensa in particolare all’Ucraina ma oggi c’è anche Gaza e il resto, e la verità è che la scrittura sembra davvero impotente.
La consapevolezza dell’impotenza della letteratura in certi momenti storici, l’inadeguatezza delle parole di fronte all’azione dà ragione a un libro fatto di fotografie, le quali sono oggetto e soggetto insieme: il mondo che parla attraverso di esse interroga l’autrice e i lettori, cooptati in un lavoro ibrido, fra il particolare di singole vicende e la grande Storia, fra racconti e ricordi, piccoli exempla saggistici e spunti inventivi, fra l’ecfrasi più stringente e le interrogazioni personali.
Il passato più inciso nel privato di Forse Esther qui si allarga in tutte le direzioni, si scioglie e dissemina fra volti noti e gente sconosciuta, così come le foto: solo alcune portano la firma di grandi fotografi. Sempre si tratta di immagini che per qualche ragione colpiscono l’autrice (“a volte foto storiche o comprate al mercatino delle pulci, altre viste in qualche mostra o in archivi privati, su internet, o altre ancora che ho scattato io stessa”).
In ogni caso, resta un alone enigmatico intorno a esse; ancora su Kafka, l’autrice ricorda: “La casa a Kierling nei pressi di Vienna fu l’ultimo luogo in cui Kafka abitò – il sanatorio Hoffmann. In questa casa è morto. Volevo fotografare quella foto, attorno a me non c’era nessuno, eppure mi sentivo osservata, o piuttosto sottomessa alle regole, al contratto non scritto tra il visitatore di un museo e un’entità invisibile”.
La fotografia insomma nel lavoro di Petrowskaja non fissa, non conclude un mondo ma ne moltiplica i possibili livelli di senso, disorienta, accende enigmi. Parole e immagini che pongono domande invece che fornire facili soluzioni – oggi, in tempi piuttosto rozzi e reazionari, roba non da poco.
Michele Lupo
Katja Petrowskaja
La foto mi guardava
Traduzione di Ada Vigliani
Adelphi
Collana Fabula
2024, 259 pagine, 70 fotografie colori
24 €