Non c’è guerra senza droga, e forse nemmeno droga senza guerra – volendo estremizzare ma non troppo il senso del libro di Peter Andreas “Killer High. Storia della guerra in sei droghe” (Meltemi).
Che tabacco, metamfetamina, alcol, cocaina, oppio e caffeina abbiano concorso a vario titolo ad aumentare la ferocia e gli stati di aggressiva esaltazione dei soldati oppure a lenire i loro traumi è intuizione tutto sommato facile. Ma questo eccitante – tanto per restare in argomento – volume ci dice molto di più.
La guerra “sotto l’effetto di droghe” è solo la declinazione più ovvia del tema; ci sono esempi di guerre “grazie alla droga” come nel caso del narcotraffico da cui ricavare somme gigantesche per avviare conflitti, o “per la droga”, laddove contese cruente nascono per accaparrarsene i mercati, e naturalmente la militarizzazione di interi apparati polizieschi e bellici “contro la droga”, spesso pretesto per attaccare altri paesi – e basterebbe una memoria a breve termine per riandare con la mente agli USA degli ultimi decenni per capire di cosa parliamo, a partire dall’invasione contro Panama.
Coca e metamfetamina
Di lì, con la cronaca e la pubblicistica, persino la fiction ha contribuito a evocare un immane paesaggio bellico in cui il narcotrafficante assume il ruolo del criminale per eccellenza. Al punto che, scrive Andreas, la guerra dei poteri americani contro la cocaina ha sostituito la guerra fredda, durante la quale la Cuba di Batista poteva invece, ancora, fare da allegro puttanaio per i week-end degli americani della Florida: donne, sigari e cocaina andavano benissimo. Fu poi Reagan a fare lo scatto decisivo per favorire l’ingresso delle forze armate in un attacco – direzione America latina – contro i Cartelli, i Pablo Escobar etc, offensiva cui la propaganda conferì un’aura ideologica di ennesima battaglia contro il male.
Per restare alla cocaina, tutti sanno come masticare foglie di coca fosse pratica millenaria nella stessa America precolombiana, e che all’uso spontaneo delle origini si sostituì la forzatura coatta imposta dai colonizzatori spagnoli del ‘500 quando compresero che in quel modo potevano meglio costringere gli indigeni alle fatiche minerarie che li avrebbero sterminati.
Insomma, la vicenda parte da molto lontano e il libro è utilissimo per mostrare come sia parziale l’immaginario tardofreak che associa all’uso delle droghe un qualche paradiso autoindotto (ci perdoni il sommo Baudelaire) – via di fuga necessitata dal dolore, piuttosto, dagli stenti, dall’obbligo di essere più forti e resistenti – discretamente impazziti non per farsi veggenti (Rimbaud, tu eri un’altra cosa) ma per meglio e più in fretta uccidere il nemico.
Come fecero i nazisti a mangiarsi la Polonia in così poco tempo scatenando la seconda guerra mondiale? Come poterono i nemici inglesi dirsi sconcertati per la rapidità dell’invasione? Diciamo che un aiuto non trascurabile arrivò alla Wermacht dagli abbondanti rifornimenti di metamfetamina, e al diavolo per l’occasione l’ideologia ufficiale del Terzo Reich che l’uso di droga condannava duramente. Non era per lo sballo, la metamfetamina, quello psichedelico figuriamoci: t’incattiviva a dovere piuttosto, ti teneva sveglio per mezza settimana di seguito ed esaltava la ben nota ideologia della forza. Passava la fame e aumentava la voglia di menare mazzate – Blitzkrieg, e ti credo.
Alcol e oppio
E il rum per gli inglesi? Amatissimo, da soldati e non, si sarebbe rivelato un’arma a doppio taglio. Piaceva anche ai coloni, specie quelli del Rodhe Island e del New England, che impararono anche a farci affari. Fino a quando la Corona inglese iniziò a fare un po’ di conti e a scoprire che il contrabbando degli emigrati impoveriva le sue casse. Motivi seri per mettersi muso contro muso e aizzare gli animi già pronti alla Rivoluzione. Vinta la quale i nuovi americani scoprirono che il whisky non era meno buono del rum, e che, soprattutto, costava meno produrlo: padri (inglesi) e figli (americani) furono però d’accordo nello spargere litri di rum prima, di whisky poi fra i pellerossa e così fiaccarne le residue capacità di resistenza.
E se le popolazioni germaniche nei secoli precedenti avevano resistito con la birra alle tentazioni del vino trionfante dei romani, l'”Impero alcolico” (così lo definisce Andreas) della Russia poté reggersi per molto tempo grazie alle entrate della vodka: tassata quanto vuoi ma troppo amata dalla popolazione per farne a meno (Lenin, “coerente proibizionista”, morì troppo presto per modificare anche in questo il corso della storia, anche perché Stalin riteneva i suoi generali più efficienti dopo aver tracannato l’ordinaria bottiglia di un distillato, ammettiamolo, buonissimo).
Gli stessi inglesi seppero d’altro canto ammorbidire la resistenza cinese attraverso la guerra dell’oppio, che fu anche una guerra per l’oppio, affinché se ne vendesse in quantità industriali e si azzerasse la capacità di intendere e di volere di milioni di cinesi.
Peraltro, il libro ci ricorda che tutto parte da molto lontano: tracce di oppio possono agevolmente rintracciarsi fra le pagine dell’Odissea. E se l’alcol (spesso di pessima qualità) continuò a mietere vittime durante la Grande Guerra (che vide pure l’esplosione del consumo di sigarette, utili a placare la fame, i nervi, il sonno), bere era un’attività connaturale alla guerra già nei Mesopotamici passando per Alessandro Magno.
Pure la caffeina “è stata con coinvolta in parecchi massacri”: “Killer High” ne fornisce lauti esempi. Fossi in voi, lo leggerei sorseggiando un non troppo impegnativo Gin Tonic – un po’ di ebbrezza per leggere nella follia del mondo.
Michele Lupo
Peter Andreas
Killer High
Storia della guerra in sei droghe
Traduzione di Andrea Maffi e Paolo Ortelli
Meltemi
2021, 368 pagine
20 €