Molti anni fa ne Lo spazio letterario, Maurice Blanchot, sottesa l’equivalenza di arte e immaginario, o meglio, assunto il secondo come il luogo in cui, soltanto, l’arte è possibile, e opponendolo alla realtà irriducibile delle “cose”, mostrava come un singolare percorso di allontanamento da essa, ed esperienza creativa dell’immaginario insieme, si compisse in modo esemplare nell’opera di Franz Kafka.
Lì si giocava a un livello tragico l’idea di un’autonomia radicale della parola poetica rispetto ai supposti referenti “empirici” che crediamo di riconoscere nel mondo.
Scriveva Blanchot: «La qualità della parola abituale è che capirla fa parte della sua natura. Ma, in questo punto dello spazio letterario, il linguaggio è senza intesa. L’arte, come lingua dell’immaginario, è quindi rispetto alla realtà un altrove». E ancora: «Nella parola poetica non siamo più rinviati al mondo, né al mondo come rifugio, né al mondo come insieme di scopi».

Insomma, prima di designare qualcosa, o dare voce ad alcuno, la scrittura ha il proprio fine in sé stessa. Se è così, l’opera inizia nel momento in cui l’io dello scrittore muore al mondo. E, se tutto questo è vero, per nessuno vale come per Franz Kafka.
Fra la cospicua produzione di titoli riguardanti lo scrittore praghese nel centenario della morte ne segnalerei due sui quali verificare l’assunto. Un altro scrivere. Lettere 1904-1924 raccoglie la corrispondenza scambiata fra Kafka e l’amico Max Brod per tutto il tempo della loro amicizia (il libro rinnova l’edizione curata da Luca Zenobi e Marco Rispoli per i tipi di Neri Pozza).
L’altro invece mette insieme l’intera riflessione (spesso frammentaria, rapsodica, problematica) di Walter Benjamin sul grande scrittore (la cura è di Leonardo Arigone e Massimo Palma per Castelvecchi, una raccolta che contiene pezzi compiuti, frammenti di diari, articoli, lettere, nonché il confronto con altri interpreti d’eccezione, quali Brecht o Adorno).
Fu proprio Benjamin il primo a interrogarsi sull’improbabile amicizia fra due figure a prima vista incompatibili (lo ricorda Reiner Stach nella monumentale biografia kafkiana in tre volumi licenziata da il Saggiatore). Non era solo questione di personalità, dentro e fuori l’ambito letterario: Benjamin contestò l’interpretazione religiosa consegnata ai posteri da Brod che condizionò la ricezione dell’opera dell’amico per diverso tempo (non solo in chiave ebraica).

Per il saggista tedesco, Kafka al più è il narratore di una dottrina che non c’è, una dottrina forse futura, perché egli a suo avviso non apre o segna un’epoca, ma addirittura ere.
Come sempre accade con Benjamin un’interpretazione letteraria si trasforma in un’indagine filosofica, mai così ardua come con uno scrittore che sembra essersi divertito a depistarle tutte. L’opera di un “uomo pieno di uno stupore infinito” sfugge all’ermeneuta; alla frammentazione (altro dal frammentismo, che è uno stile ma anche una maniera) di Kafka, ne corrisponde un altro del critico (Benjamin lo legge tardivamente e “fra i tormenti”, scrive il curatore Massimo Palma).
Kafka, scrittore di gesti, è un enigma come il mondo che racconta. Imperscrutabili sono i codici della Legge che stritolano i suoi personaggi (il termine, trattandosi di opere come Il processo, La metamorfosi, davvero stride), come se derivassero da un mondo primordiale che le occulta.
Secondo Brod, una volta Kafka avrebbe detto che “il nostro mondo è solo un cattivo umore di Dio, una brutta giornata”. Ora, con tutta la comicità (per la critica ormai conclamata dopo decenni di geremiadi, o v’è ancora qualcuno che fatica a concepire il tragico e il comico insieme?) che vogliamo recuperare alla scrittura di Kafka, è evidente – e bene fanno i curatori del carteggio a sottolinearlo – che per lui anche la scrittura di una lettera (o si pensi ai Diari) si muove in un orizzonte poetico, non certo per mero estetismo.
Brod in effetti non “capiva” Kafka. Quando finalmente si decide anche lui a scrivere con una certa regolarità (per un bel po’ è piuttosto un monologo di Kafka) spesso e volentieri mostra di non intendere a fondo l’amico, si tratti di scambiarsi riflessioni su Kierkegaard o su banali faccende quotidiane, né sembra migliorare col tempo.
Negli ultimi anni, la tubercolosi polmonare che lo avrebbe ucciso, costrinse Kafka a provare sanatori e luoghi salubri in giro per l’Europa in cerca di miglioramenti senza potersi impedire di riflettere su un possibile senso della sua condizione: Brod più che addebitarne l’angoscia all’inefficacia dei luoghi scelti volta per volta non riusciva.
Così come non ne capiva il terrore dell’amore, più volte dichiarato – e manifestato nei fatti (“cos’è questa tua paura? di cosa?”). Uomo certo più facile, ben dentro la cultura praghese del tempo, faticava a intendere (o meglio, a intendere le conseguenze di) quella che Benjamin avrebbe definito “elementare purezza di sentimento” dello scrittore, cifra per così dire del suo carattere più proprio, da cui discende quel tarlo della vergogna che più esegeti hanno riconosciuto nella sua esperienza, umana e letteraria – non solo quella che Kafka provava per sé stesso.
All’umile individuo soggiogato dal potere, all’inetto per eccellenza, terrorizzato dal padre che avrebbe potuto in qualsiasi momento riportarlo sul ballatoio e lasciarcelo chiuso per una notte come effettivamente accadde, non resta altro. Perché il potere (e se il padre ancora nell’era che chiamavamo moderna, è stato il potere, per nessuno lo è stato come per Kafka: “il mondo dei funzionari e il mondo dei padri sono la stessa cosa”, scrive Benjamin), il potere è l’altro polo della macchina bestiale in cui è confitto l’uomo del XX secolo.
Potere terribile, schiacciante quanto comico: impossibile sfuggirvi, anche se questa è la sola ambizione di K. – di nuovo, di Franz e dei suoi personaggi, che rispondono all’asfissia della Legge in maniere assurde, improbabili, paradossali. Come paradossale è l’esigenza e insieme la condanna della scrittura (punto su cui giustamente insiste Zenobi nella sua introduzione alle lettere).
Kafka, che pure “voleva sapersi annoverato tra le persone comuni”, sapeva che l’esperienza dello sradicamento era una conseguenza della pratica poetica, e se dunque l’arte lavorava a una compensazione esistenziale, rappresentava però la via di un possibile e definitivo abbandono del mondo.
Anche nelle lettere intesse un dialogo con la pagina che si configura essenzialmente come il disperato tentativo di mantenere un contatto con una individualità, la sua, che rischia continuamente di sfuggirgli, di apparirgli estranea non meno di tutto il resto. Il suo paradosso sta quindi nell’aver usato come strumento di salvezza lo stesso esercizio che può esser causa prima dell’oblio e di perdizione: la scrittura.
Nichilismo, se così volessimo chiamarlo, sofferto, mai recitato ad arte. Epperò l’arte, l’immaginario, contemplano necessità inconciliabili con la sua (in)capacità di vivere la vita ordinaria. “Alle pose degli esseri umani toglie gli appoggi tradizionali e ne fa un oggetto di riflessioni che non arrivano mail alla fine” – ancora Benjamin, che intravede assonanze in certo pensiero orientale, cinese, in Lao Tzu (“anche Kafka era un autore di parabole, ma non fondava religioni”).
Fino a che punto Brod comprende che la scrittura in Kafka, algebra impossibile, è guarigione e causa della malattia, una specie di ossimoro ontologico? Ad avviso di Benjamin, per nulla; ma gli dobbiamo comunque il dettaglio decisivo di averla salvata. Fraintesa (come forse la vita stessa di Kafka) ma salvata. Non poteva, il sionista militante che credette persino a una letteratura al servizio di una causa, tutt’altro che convincente per l’amico, concepire certe vertigini.
Per Kafka, l’opera richiede l’espunzione della vita, il suo allontanamento: non solo una modalità dell’assenza, ma paradossalmente, pure, la sola possibilità di intervento (interpretativo). Se l’opera è finzione, essa è altresì linguaggio della verità (o, almeno, del possibile), pratica che libera lui dal mondo rivelandolo – ma mai sino in fondo: l’incompiutezza narrativa è inevitabile.
Riconosciuta l’ineluttabile inadeguatezza al vivere, Kafka confessa a Brod che le sue opere migliori le deve alla provvisoria capacità di “morire contento”; non solo, dice di rallegrarsi nel descrivere situazioni in cui qualcuno sta morendo.
Altrove annotava: “Mi piacerebbe spiegare il senso di felicità che ho in me di tanto in tanto, come appunto ora” (e si riferiva allo scrivere); o ancora, appunto fulminante: “L’arte vola attorno alla verità, ma con la precisa intenzione di non farsi bruciare”.
Estasi subitanee, brevissime, ma forse non effimere.
Michele Lupo
Walter Benjamin
Il mio Kafka. Scritti, lettere, frammenti (1927-1939)
A cura di Leonardo Arigone e Massimo Palma
Castelvecchi
Collana Timoni
2024, 320 pagine
30 €
Franz Kafka, Max Brod
Un altro scrivere. Lettere 1904-1924
Traduzione e cura di Marco Rispoli, Luca Zenobi
Neri Pozza
Collana La Quarta Prosa
2024, 448 pagine
30 €