Intanto diciamo il piacere – non appaia irriverente in una storia dura e dichiaratamene personale, benché guardata e raccontata a una certa distanza dal narratore (troppa?). Perché qualsiasi dolore non per questo diventa letteratura, ed è sperabile che ci si lasci alle spalle il dolorismo che ha infestato l’editoria da un ventennio a questa parte.
Al triste ricatto emotivo di letterati – e spesso anche lettori – avventizi, o all’astuta autopromozione di più smagati facitori di storie strappalacrime, libri come questo Invernale di Dario Voltolini (La nave di Teseo) oppongono una scrittura fra le migliori d’Italia, e non da ora, il cui rigore è il tributo di verità che il narratore ha creduto di dover riservare alla storia.
Risultato, un’esattezza spietata in cui si dispiegano davanti al lettore le tracce visive (e anche foniche) del microcosmo, il mercato e la macelleria ivi inclusa in cui poi si svolge quella sorta di scena primaria – l’incidente che al padre cambierà la vita sino alla fine prematura – al centro della vicenda.

Voltolini racconta di Gino, suo padre, macellaio nel mercato di Porta Palazzo, a Torino. Siamo negli anni Settanta. Un posto affollatissimo, specie di sabato, quando “il mercato è preso d’assalto da una massa di persone. Ci sono folle nelle corsie, non si passa. Di fronte a ogni banco uomini e donne si spingono e parlano forte”.
Gino è un gran lavoratore, totalmente compreso in quello che fa. Dario constata come i suoi gesti siano sicuri, studiati e ripetuti con maestria. Non si lasciano condizionare dalla catena incessante di avventori che si accalcano aspettando il loro turno, dalle voci a volte urlanti, dalle pretese a volte fuori luogo.
Sangue, coltelli, bilance, ganciere, carni spolpate, crani spaccati, frattaglie, zampe e teste di pollo, carré di agnello, soldi, resti – nulla turba la sicurezza della serie reiterata dei gesti. “Come batteristi nell’assolo i macellai colpiscono con la lama tra segmento e segmento per creare le cotolette da fare al forno, alla brace, alla milanese. Suoni come di mitraglia, lame tra la carne e tonfi sul legno del ceppo”.
Questa prima parte teatra un mondo – dalla disciplina di un temenos – che s’interrompe bruscamente quando per un urto involontario “il coltello devia verso sinistra (…) sul suo dito pollice che tiene la mezza bestia per divaricarla e spaccarla meglio”.
Corsa all’ospedale, dito salvo anche se non più funzionante come prima; l’uomo, tenacissimo, che torna al lavoro prima del tempo e per un po’ mostra di non dar peso alla stanchezza che lo attanaglia. Fino a quando può; è il lettore ad accorgersi del cambiamento prima di quanto non confessi lui. Perché Gino non dice niente, ma i suoi movimenti non sono solo più lenti, sono diversi. Nel continuum della regione al centro della scena, il lavoro quotidiano sembra ancora giocarsi fra i poli avversi del metallo elettrico, tritacarne e spirali d’acciaio, e della carne inerme che ne accoglie i colpi.
E l’uomo è sempre lì, in mezzo, attento a regolare, mediare, oliare l’ingranaggio perché funzioni, senza sbavature, senza errori, ma ora più di prima sa che possono costare cari. Continua “a calare la lama ritmicamente sulla carne” ma con inusitata esitazione.
Fuori, di più, le sue curiosità sono inconsuete, nuove, percorre in auto strade mai battute prima – e vede, pare alla voce narrante, cose che altri non vedono, anche in quello spazio di illusione democratica per eccellenza dove tutti ma proprio tutti hanno da dire la loro: il calcio, anche perché era un calciatore in passato di buon livello.
E d’estate, invece delle solite vacanze, un motorino. Ma una stanchezza non da lavoro si è ormai insinuata perfida e incomprensibile nelle sue giornate. Scopre dei rigonfiamenti intorno al collo, i referti tardano ad arrivare, poi si accumulano ma non chiariscono (in famiglia lo chiamano “il libro dell’enigma”).
Gino dovrà essere portato all’estero. Il distacco quasi da referto, comprese le vaghe tracce di stupefazione che il narratore mantiene rispetto alla materia narrata, è pari a quello che li padre sembra tenere fino al massimo punto possibile – quando la tragica notizia arriva, a nulla vale il tentativo di Dario di snobbare le informazioni ripescate in una vecchia enciclopedia. Ora il corpo del padre diventa il campo di una battaglia estrema, fra il sarcoma e l’antitumorale.
Il memoir cresce d’intensità e il campo chiuso di una storia privata si allarga a una più generale gittata sulla condizione umana, la malattia, l’abrupta insorgenza del male che interrompe in una vita ben stretta intorno a affetti sicuri e rituali codificati (il lavoro nel mercato è ovviamente fatica ma è gestito attraverso un codice efficace e persino estetico di tempi, passaggi, movimenti esatti: gli stessi della scrittura di Voltolini), al rapporto che parrebbe in qualche modo elusivo fra un padre e un figlio. Il primo dovendo sempre più retrocedere per altro da soggetto a oggetto di un campo di battaglia il cui esito però lo riguarda eccome – e in queste pagine di attesa verso il temuto finale si amplifica il gradiente di metaforizzazione.
Prima della febbre finale (del narratore) che, come un correlativo oggettivo, annuncia la morte del padre, le reazioni emotive del figlio sono trascritte in una lingua insolita – oltre che preziosa – per occasioni come questa (al mare con degli amici: “una pietra di durezza superiore al corindone ma non ancora a quella del diamante staziona in me, nel cervello e dalle parti del piloro”).
Dopo la fenditura nella compattezza dell’organismo-mercato (perché era un mondo che adesso dovrà arrangiarsi in altro modo); e quella ferale nel corpo del morituro, il solo organismo che resiste, tagliente e coeso, sebbene addensato intorno alle ferite del sangue, resta quello della scrittura.
Si potrebbe pensare che la distanza che tiene a bada la materia psicologica e governa quella affettiva è ciò che consente al libro di oltrepassare la sfera privata e farne un piccolo capolavoro mitologico.
Michele Lupo
Dario Voltolini
Invernale
La nave di Teseo
Collana Oceani
2024, 144 pagine
17 €