José Ovejero, con il romanzo Fumo (Voland, traduzione di Bruno Arpaia), si spinge più in là, gettando in un nuovo Paleolitico i suoi protagonisti. Non c’è voce narrante che spieghi cosa sia successo al mondo, come lo si conosce. Non si fa alcun cenno a come mai le persone si siano ritrovate in quello stato. Non esistono forme di comunicazione, né i tanto odiati social media, le vie di collegamento sono all’improvviso scomparse.
Non esiste neanche una tribù. A un certo punto, gli uomini devono essersi dispersi. Tracce della vita precedente non ce ne sono (case, autostrade, centri commerciali). Né ricordi della vita anteriore (quella in cui vivevano immersi nella tecnologia). I protagonisti del romanzo sono una donna, un bambino, un gatto, un fucile, una miserabile baracca, non ultimo il Bosco. Gli esseri umani e gli animali non hanno nomi. Come se, in questo Paleolitico “prossimo venturo”, avere un nome fosse un tabù. O un dio iracondo li abbia maledetti privandoli di un’identità, che si riassume in un nome.

Ci si chiede a un certo punto se gli esseri umani non abbiamo perso anche l’uso del linguaggio o se questo sia usato solo all’esterno. Per necessità. «Parliamo di qualcosa di molto più ampio e significativo di ciò che le mie parole potrebbero tradurre», come se davvero altri uomini che all’improvviso appaiono non potessero che rispondere solo «con frasi imperfette».
Anche il linguaggio sembra non più appartenere agli uomini, che evidentemente non lo capiscono più fino in fondo. «La gatta e il bambino non possono spiegarmi perché fanno quello che fanno, non forniscono motivazioni. Sono due scatole nere impossibili da aprire. Del resto, neanche io do loro molte spiegazioni. Conviviamo, in silenzio per la maggior parte del tempo. Facciamo ciò che dobbiamo fare; senza giustificarci».
Un mondo di silenzio ha sostituito il bla bla della televisione e delle conversazioni inutili? Un mondo in cui il silenzio è la forma massima di penitenza esistenziale, umana e laica? Dopo aver corroso il linguaggio con un uso sciocco delle parole, gli uomini finiscono nel silenzio.
Le parole sono qualcosa di raro, usate, con parsimonia, solo con gli estranei, quando questi derelitti-uomini affamati e spenti passano vicino alla baracca e dicono di essere allo stremo e senza cibo. Una merce che, seppure accompagnata dal fucile della protagonista, non finisce per diventare motivo di sopraffazione e di lotta.
La donna, di cui non si conoscono né passato né il nome, il bambino, che anche lui non ha un passato né un futuro, e l’uomo, che va ogni tanto e porta loro del cibo, non parlano quasi mai. Agiscono. O, semplicemente, sopravvivono, in un mondo che è ostile, privo di animali, di uccelli e di fiori, come se la primavera non dovesse mai arrivare. I personaggi, per sfamarsi, cercano ghiande, funghi e combattono il freddo come possono.
Per le strade ci sono morte e desolazione; nelle baracche nient’altro che dolore, fame e un attaccamento alla vita inimmaginabile. La donna, un giorno, si è vista comparire davanti questo bambino e, da quel momento, si sono scambiati in tutto una manciata di parole. Taciturni, grati per quel poco che riescono a trovare, i due conducono un’esistenza solitaria, se si escludono le visite dell’uomo.
In Fumo non ci sono nomi, ma neanche discussioni. Visto che la parola manca, l’uomo e la donna non sono legati da nulla. Se non dai loro corpi. Per soddisfare un primordiale bisogno. O tramite questo, “pagare” l’uomo, perché è lui a portare le provviste, mentre donna e bambino lo accolgono in casa. Non esistono intervalli regolari, promesse. Solo l’attesa. E la rassegnazione. Non ci sono legami. Neanche a dirlo legami di sangue; i due protagonisti, infatti, non sono madre e figlio. Non c’è posto per una forma di affetto e di un prendersi cura l’una dell’altro. La donna e il bambino vivono sotto lo stesso tetto, ma sono separati. Raccontano la loro incomunicabilità.
Il bambino in casa non gioca. Il suo gioco è rivolto verso il trovare il cibo. È come se avesse perso la sua natura di bambino. Forse i suoi genitori sono morti, forse se ne sono voluti sbarazzare e lui ha vagato per boschi e pianure o è stato abbandonato poco prima di arrivare alla baracca.
Alla base del libro c’è l’idea di una vita semplice, forse una nostalgia atavica, che lo scrittore percepisce, in un mondo di puro consumismo. Ma Ovejero, sempre attento alle relazioni umane, ‒ con quel disincanto e con un tono qui affatto rassicurante ‒ cerca di dare un’idea dei sentimenti umani.
In Fumo lo scrittore cerca di capire se i sentimenti (da non confondere con i sentimentalismi e il languore) possano resistere. Se i legami tra le persone possano fiorire di nuovo. E se sono da considerare umani quelli che, come i protagonisti, non possono far altro che raccogliere solo bacche ammuffite.
Forse quando la donna ricorda del proprio figlio morto (senza usare la parola figlio) Ovejero fa capire che una speranza, ancora, c’è.
Claudio Cherin
José Ovejero
Fumo
Voland
Traduzione di Bruno Arpaia
Collana Intrecci
2023, 144 pagine
17 €