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Voi siete qui: Biblioteca » “Fisica delle separazioni in otto movimenti” di Sartori

4 Marzo 2023

“Fisica delle separazioni in otto movimenti” di Sartori

Ricordo una vecchia bossa nova (testo di Vinicius de Moraes e musica di Toquinho – all’anagrafe, Antonio Pecci) che, tradotta, suona così: «Ci sono giorni in cui me ne sto a pensare alla vita, e sinceramente non vedo un’uscita, com’è ad esempio – tanto per far capire – che le persone appena nascono iniziano a morire. Dopo l’arrivo, viene sempre la partenza, perché non c’è nulla senza separazione».

Nel suo romanzo Fisica delle separazioni in otto movimenti (Exòrma), Giacomo Sartori ci racconta – con una scrittura affilata e trasparente come il cristallo, ma allo stesso tempo con una densità psicologica che fa pensare al Giuseppe Berto de Il male oscuro – una serie di separazioni vissute dal protagonista (le cui trame dolorose, peraltro, si accavallano, si intrecciano lungo tutto il testo – fra loro e con l’affacciarsi sporadico di riferimenti alla «nuova compagna»): commiati dalla prima fidanzata, dalla madre, dalla moglie, ma anche dalla cittadina natale, un po’ asburgica («bigotta e retriva», la definisce in realtà), dal proprio Paese d’origine, da quello in cui ha maturato esperienze lavorative importanti, dalla (ex) casa coniugale…

Giacomo Sartori, Fisica delle separazioni in otto movimenti, Exòrma

Il primo movimento di questa quasi-sinfonia di parole si intitola Imparare a dimenticare. Immagine ricorrente, quasi ossessiva, sono qui i piedi femminili,

con i loro vezzi da piedi timidi, ma anche fieri, e insomma struggenti. Erano piedi che amavano il contatto con il cemento e i pavimenti freschi (…) Erano però anche piedi armoniosi, con quelle arcaiche simmetrie che poi si ritrovano nei quadri di Picasso o anche di Carlo Carrà, e soprattutto sinceri. Le persone si conoscono dai piedi, nella mia vita non ho mai incontrato dei piedi che sapessero mentire, i piedi non sono come le facce, non sanno cos’è la scaltrezza: ci si può fidare a occhi chiusi di quello che raccontano”.

Ma la sensualità podalica, che si trova, per esempio, nel Monogramma di Odisseas Elitis («Perché ti amo e nell’amore so / entrare come il Plenilunio / da per tutto, per il tuo piccolo piede nei lenzuoli enormi / sfogliare gelsomini…»), emerge solo a tratti («i suoi piedi elastici e sbarazzini»), in favore del prevalente tono sentimentale, della nostalgia costante di chi non riesce, appunto, a dimenticare, pur avendo sempre avuto labile memoria («Dentro di me non mi sono davvero separato da mia moglie, dentro di me tengo le gomene attaccate alle bitte del mio passato» – immagine portuale bellissima).

Il commiato dalla madre, su cui è soprattutto fondato il secondo movimento, appare il più arduo e sofferto, perché è quello irrimediabile della morte – di una morte, oltretutto, dolcemente ma deliberatamente indotta, grazie alla morfina, in una paziente terminale che con estrema (in tutti i sensi) lucidità la esigeva. Chi si è trovato nella situazione di dover assecondare verso il trapasso una vita, foss’anche quella di un gatto molto amato, sa quanto sia penoso varcare tale soglia, e quanti rimorsi e rimpianti rimangano, poi, nel tempo, a dispetto della ragione che tenta di ribadire l’inevitabilità della scelta compiuta.

«Quando ci si separa dopo essere stati molto tempo assieme è difficile capire chi dei due lascia l’altro, perché le cose sono sempre più complicate di quello che sembra, e chi lascia, o insomma ha l’apparenza di lasciare, può essere costretto in realtà dall’altro, e quindi è quest’ultimo, il lasciato, l’autentico lasciante».

Così inizia il terzo movimento, nel quale le vicende personali man mano riferite dal narratore sono anche un tentativo di comprendere “chi lascia chi”, partendo dal presupposto che «nei vortici delle recriminazioni e degli alterchi le tattiche si embricano in piani bislacchi e rifratti, un po’ come succede nei quadri cubisti, senza gerarchie certe» (altro riferimento pittorico per sciogliere il nodo di un’immagine complessa).

Nel quarto movimento, la minuziosa insulsaggine dei diverbi coniugali viene sovrastata dalla piccola tragedia di un addio altrui: «il Signor Banto, il marito di Serya, i portinai del palazzo» ha un malore, purtroppo letale. Il Narratore presenta l’episodio dapprima con apparente, quasi cinico distacco, ma poi, via via, con crescente partecipazione, rivelando un’inattesa capacità empatica.

La raffigurazione della vedova annichilita e la descrizione dello squallido ambiente in cui la famiglia vive ci offrono pagine al contempo scientifiche e strazianti:

Surya è seduta sulla malandata sedia di legno, con la schiena arcuata, quasi il suo busto ancora giovanile avesse perso ogni nerbo. Non dice niente, non sembra rendersi conto di quello che succede attorno a lei. O forse quel suo corpo spezzato è la prova che se ne rende conto meglio di chiunque altro: ha la testa piegata da una parte, come se anche quella non reggesse più, e guarda in basso. Non parla e non piange, ma emana una disperazione più agghiacciante di un grido, o di qualsiasi singhiozzo. Sembra incongrua, tra quelle persone tutte in piedi che parlottano tra loro”.

Non vi è, stavolta, un richiamo esplicito, ma l’immagine della donna si direbbe proprio mutuata dalla tela Ricordo di un dolore, di Giuseppe Pellizza da Volpedo.

Il movimento successivo è dedicato alla prima fidanzatina, iniziata a frequentare sui banchi del ginnasio e poi divenuta punto di appoggio e di riferimento per le scelte, i trasferimenti e i viaggi compiuti negli anni successivi, fino alla conclusione del rapporto. L’incipit evoca una serie di sensazioni olfattive disparatissime, ricavate dall’epidermide della ragazza (gomma per matita e pavimento di falegnameria, pane appena uscito dal forno, bruciaticcio di motorino elettrico surriscaldato o di trenino, salmastro di costa oceanica battuta dal vento, quasi di ostrica appena aperta…), che hanno contribuito non poco ad attivare «le meccaniche del desiderio». La «fisica» del titolo trova qui un linguaggio adeguato e si concreta in locuzioni di grande efficacia, quali «le rifrattometrie dei rapporti intimi».

Ed ecco apparire la «moglie», conosciuta nel Paese dove entrambi si trovano per motivi di lavoro. Più grande di lui, con alle spalle un matrimonio ormai all’ultimo stadio e un’infanzia per certi versi parallela alla sua, gli appare come una di «quelle rare persone che sanno tirare fuori il meglio di noi stessi, e con le quali diamo quindi il massimo senza sforzo alcuno».

Si stabiliscono insieme nella «grande metropoli». Iniziano una convivenza di intensità e armonia invidiabili, finché, come nel mitico film di Ingmar Bergman Scene da un matrimonio, e con le stesse modalità, non si manifestano i primi screzi, forieri della fine: «In genere, era proprio parlando di qualcuno che iniziavamo a bisticciare, senza renderci conto che in realtà stavamo parlando di noi, e proprio per questo ci scontravamo».

Dividersi significa anche lasciare la casa comune e occuparsi degli oggetti che hanno riempito lunghi anni di quotidianità. Con due approcci opposti, tuttavia: mentre lei esamina, cataloga e imballa ogni cosa, in vista del trasferimento nella «città del Sud», lui evita di attardarsi sui dettagli e butta, letteralmente, il suo passato.

Nel settimo movimento viene presentata la postrema vacanza comune della periclitante coppia di coniugi: un viaggio in Giappone, sorta di serena Estate di San Martino prima che giunga l’inverno della «separazione definitiva». A chi, come il sottoscritto, pratica (da lettore e, ahimè, da scrittore) la narrativa odeporica, questa parte del libro risulta particolarmente felice. Se siamo disposti a limare la nostra capacità percettiva sfregandola contro paesaggi e situazioni distanti dall’abituale, la prosa dell’autore non ci lascia inerti:

Appena usciti siamo stati subito inghiottiti da stradine non trafficate, con un’alternanza di casette recenti e tradizionali. Il cielo era azzurro scuro e la temperatura era molto gradevole. Dopo appena qualche minuto siamo incappati in un primo tempio circondato da un vasto giardino: ci siamo rimasti molto tempo, sbalorditi dalle decorazioni e dall’esuberante vegetazione. Tutto per noi era nuovo, molto intenso e intriso di abissale pace”.

Tornando alla canzone citata in apertura, ogni arrivo precede una partenza, ma è altrettanto vero che ogni nuova partenza comporta un ulteriore arrivo: perpetua alternanza pendolare. Nell’ottavo movimento (breve, appena abbozzato) ritroviamo il protagonista accanto alla «nuova compagna» o «fidanzata», di cui avevamo fugacemente ricevuto, qua e là, vaghi indizi. Più giovane di lui, a differenza della consorte lasciata (forse…); inoltre, «manco a farlo apposta, lei dimostra molti meno anni di quelli che ha, il che peggiora le cose».

Non sappiamo se il pendolo oscillerà ancora. Questo ci dice il nostro personaggio: «mi incollo alla sua schiena, con il braccio a fare pressione sul seno per ridurre a niente ogni distanza, per spremere fuori dai nostri corpi fino all’ultima molecola di ossitocina». Ossia, dell’ormone che presiede al parto, all’allattamento e alla stabilità di coppia. Chi vivrà vedrà…

Mi fermo qui. Per via del lavoro che svolgo (funzionario del Servizio Tutela e Valorizzazione Risorse Idriche), conoscevo l’impegno del tecnico Giacomo Sartori nel promuovere un’agricoltura che richieda meno acqua e sia quindi maggiormente compatibile con gli ecosistemi. Lo scopro, adesso, anche prezioso romanziere: la sua prosa, dall’esattezza chirurgica, sa toccarci le corde emotive più nascoste e lenire i loro patimenti. Merita davvero di essere letto, ne converrete con me…

Marco Grassano

Giacomo Sartori
Fisica delle separazioni in otto movimenti
Exòrma
Collana quisiscrivemale
2022, 180 pagine
16,50 €

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