Con gli anniversari, i centenari in particolare, di figure più o meno rilevanti del passato aumentano le pubblicazioni sul tema, si sprecano i servizi giornalistici, i social si buttano a pesce sull’argomento del giorno e quello successivo si ricomincia con qualcos’altro, con qualcun altro.
Sperabile è invece che il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti sia l’occasione per sottrarre l’eroe socialista – perché di questo si tratta, di un uomo coraggioso fino all’eroismo – con il suo tragico epilogo all’ambigua formuletta scolastica dello spartiacque fra un primo e un secondo fascismo, quello della dittatura.
Perché per molti decenni nemmeno la sinistra ha saputo evitare di nicchiare rispetto alla sua vicenda umana e politica, mantenendone salda sì la memoria del delitto per denunciare la violenza fascista – come se lo stesso fascismo, dalle sue origini, potesse concepirsi al di fuori della violenza – e lo strappo verso il regime totalitario, ma allo stesso tempo tenendolo ai margini di un possibile pantheon delle figure storiche di riferimento, per la semplice ragione che Matteotti era solo un riformista. E per i comunisti, è noto, da riformista a servo del Capitale il passo era brevissimo.
Si sta esagerando, va da sé, non crediamo che qualcuno si sia mai spinto a tanto, ma neppure v’è chi ricordi il nome del deputato socialista risuonare nelle accanite discussioni ideologiche interne al variegato – e sempre conflittuale al suo interno – mondo della sinistra dei tempi più caldi, specie di quella ideologicamente più marcata.

Elegante, freddo nel ragionamento, diffidente verso la rivoluzione d’Ottobre e il comunismo; ma la tempra e la forza delle prese di posizione in Matteotti erano un habitus tutt’altro che improvvisato. Il celebre j’accuse in Parlamento che fu prodromico alla sua morte non ne era stato il primo o unico esempio; non a caso era già stato aggredito in passato a causa delle sue battaglie, spesso più decise di quelle di chi doveva teoricamente stare alla sua sinistra.
Lo storico Mauro Canali, che ha anche curato la mostra “Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia” da poco chiusa a Roma, esperto dell’orizzonte storico interno al passaggio dal mondo liberale a quello totalitario (per quanto la formula si presti a molti elementi di criticità: è vero c’erano ancora gli altri partiti, ma il fascismo si era organizzato da subito come movimento violento e anti-parlamentare), ricorda ne Il delitto Matteotti, revisione più stringata di un lavoro che già il Mulino aveva licenziato nel 1997, come nel 1915 il suo lucido furore anti-interventista lo avesse messo contro la direzione del Partito Socialista ma anche contro i massimalisti.
Matteotti avversò a tal punto la partecipazione italiana alla guerra che i futuri fascisti non lo dimenticarono (nemmeno il governo: l’antimilitarista per questo si beccò due anni di confino in Sicilia). Né gli avrebbero perdonato l’intransigenza, l’impavida parresìa, loro, gli sbruffoni del “me ne frego”.
E Matteotti fu tra i primi a intendere il cuore economico del fascismo, il consenso o almeno l’interesse già agli inizi non solo dei reduci disperati, dei fanatici guerrafondai, ma soprattutto della piccola borghesia e ancor più di quella nera del capitalismo agrario. Del resto non si contano gli articoli del duce contro Matteotti già negli anni precedenti al ’24, nei quali veniva minacciato senza troppi giri di parole.
Tre anni prima, alla vigilia delle elezioni, era stato picchiato dagli squadristi. Uomo che detestava la violenza, nel fatale discorso alla Camera, dopo aver elencato gli abusi, le violenze, i soprusi, i brogli alle elezioni, vanamente aggredito dalle urla dei fascisti concluse dicendo a un collega socialista: “E adesso preparatevi alla mia commemorazione”.
Eppure c’è dell’altro, ed è la ragione del libro di Canali. Per lo storico, la fine tragica del deputato socialista non è legata soltanto al celebre discorso. L’omicidio del 10 giugno non fu solo una questione politica, e forse nemmeno la principale. Matteotti infatti si apprestava a rivelare un traffico di tangenti e petrolio al cui vertice stavano Mussolini e il fratello Arnaldo. Affari sporchi, insomma. Il 10 giugno, il capobanda Amerigo Dumini, con altri quattro farabutti della Ceka, la polizia politica, lo picchiano, lo caricano su un’auto e lo portano via.
Perché proprio quel giorno? Perché quello successivo Matteotti avrebbe dovuto tenere un altro discorso alla Camera: e il suo oggetto avrebbe riguardato la storia della corruzione, non proprio una piccola faccenda di bustarelle visto che implicava soggetti internazionali.
Gli americani e gli inglesi si contendevano lo scarso ma non trascurabilissimo petrolio italiano. Secondo il il giornale inglese Daily Herald, Matteotti aveva scoperto che Mussolini aveva favorito la parte americana, esattamente la Sinclair Oil, per la concessione a trivellare, in cambio di lauti guadagni. Secondo lo stesso giornale, il deputato aveva incontrato personaggi del Labour inglese per indagare sulla cosa e renderla pubblica.
Questo il punto. Canali impagina il suo libro dunque dalla ricostruzione di questo affare per poi mettere a disposizione del lettore l’intricatissima scena dell’omicidio, gioco ferale in cui l’aspetto tragico si unisce – esemplare vicenda fascista – al farsesco, alla miseria umana dei suoi protagonisti, dal capo a scender per li rami di giornalisti compiacenti, (Filippelli del Corriere Italiano, il giornale che il fascismo aveva provato a fare organo del regime, procurò l’auto in cui Matteotti venne sequestrato e massacrato), gerarchi vicinissimi al duce, inquirenti proiettati in un territorio pericoloso, bande della polizia segreta (la Ceka, cui lo storico dedica un capitolo decisivo, prima di istituzionalizzarsi nell’Ovra: Cesarino Rossi, capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio in un memoriale confessava che l’organizzazione esisteva eccome, ma che l’ordine era partito dal Duce), menzogne e tradimenti, ricatti reciproci e false promesse – la figura chiave dell’assassinio, Dumini, aspetta di essere salvato dal capo, entra ed esce dal carcere, cambia versioni e umori come mezzo secolo dopo nemmeno Pino Pelosi.
Canali si muove in questo ginepraio di fatti e sospetti con la consueta disciplina metodologica, una fitta rete di documenti, lettere, verbali, alla luce dei quali se emerge al solito la solerzia dei servi, l’intrigo nauseabondo dei reciproci scaricabarile, la figura del capo si staglia come l’ombra del più classico convitato di pietra.
Michele Lupo
Mauro Canali
Il delitto Matteotti
il Mulino
Collana Biblioteca storica
2024, 360 pagine
26 €