All’inizio del quarto capitolo del suo fondamentale “Walden, o la Vita nei Boschi”, Henry David Thoreau osserva, parlando di libri: “Molto si stampa, ma poco si imprime”. Da allora sono passati 170 anni, e l’affermazione non ha perso di forza; ha acquistato, anzi, di profondità.
In questa nostra Italia contemporanea si continua a leggere pochissimo, ben al di sotto della media di altri Paesi. E, però, chiunque abbia un minimo di notorietà si sente in dovere (in diritto?) di far gemere i torchi con le proprie memorie, o riflessioni, o fantasie, da propinare poi – col supporto di ripetute presenze e promozioni televisive – a un pubblico di bocca buona. Per non parlare dei presunti poeti “che non leggono gli altri poeti” (e si nota…), visto che si ritengono ispirati direttamente dalle Muse.

Il romanzo “Il cannocchiale del tenente Dumont”, di Marino Magliani, appena uscito presso l’attentissimo editore L’Orma, viene a infrangere felicemente questa regola consolidata, perché le sue magnifiche pagine incidono nella memoria dei lettori “di gusto” immagini ed emozioni che ne fanno la gioia (o, perché no, la felicità). E ciò, abbinando una grande sapienza narrativa a un’estrema ricchezza linguistica.
Seguiamone il meccanismo. Una “Notizia” iniziale ci informa che Napoleone, constatato il numero dei disertori durante la Campagna d’Egitto, decide di istituire una Commissione mista per indagare in proposito. Tra i componenti, il medico di origine olandese (di Haarlem, per la precisione) Johan Cornelius Zomer, che con le sue parole ci farà compagnia fino al termine della vicenda.
Senza trascurare il riverbero sulle persone in cui i tre si imbattono, il riflettore è puntato sui protagonisti: il capitano Philippe Lemoine, il tenente Gerard Henri Dumont e il soldato basco Bernardo Gilbert Urruti. Essendo consumatori abituali di hascisc, diventano, a loro insaputa, cavie di un esperimento: dall’Africa vengono rimandati in Europa, mentre Zomer dapprima (sulla nave) e poi il suo “spione” Pangloss (appellativo che significa “tutto lingua” e che è anche, pari pari, quello dell’ottimista ottuso satireggiato nel Candide di Voltaire) li tengono d’occhio e ne studiano i movimenti.
I tre, dopo la battaglia di Marengo, pensando a una sconfitta francese, disertano e iniziano a spostarsi verso la costa ligure, con l’intenzione di imbarcarsi a Porto Maurizio per raggiungere qualche terra in cui condurre una vita libera.
A questo punto, però, come nella celebre poesia Itaca, di Konstantinos Kavafis, il viaggio, con le sue peripezie, le sue sensazioni e le sue emozioni, prende il netto sopravvento sul traguardo finale: “Tieni sempre Itaca (in questo caso, Porto Maurizio: n.d.r.) in mente. / Raggiungerla è la tua meta. / Ma che non sia affrettato il viaggio. / Meglio che duri a lungo (…) / e che tu approdi all’isola / ricco di ciò che hai conosciuto lungo la via…”. Volendo, si incontrano anche “Lestrigoni e Ciclopi / e l’irato Poseidone (…) / che porti dentro / e l’anima ti aizza contro” – i fantasmi evocati dall’uso della droga.
Accompagnando i tre disertori nel loro ingarbugliato itinerario, il lettore conosce man mano fiumi e torrenti, boschi, rocce, anfratti e, alla fine della strada (ma non del percorso), la luce argentea degli uliveti e il “tremolar della marina”. Incrocia, però, anche altri personaggi, che possono apparire fugacemente (per esempio, il valligiano che indica un sentiero) o in maniera stabile e forse anche, per qualcuno, definitiva (come la donna del lebbrosario).
Non racconto in dettaglio la trama, e men che meno il finale più o meno aperto, che può riservare, ai più, una certa sorpresa o, per contro, confermare qualche intuizione a chi è stato molto attento ai piccoli indizi e ai minimi dettagli. Questo complesso livello di efficacia affabulatoria è tutto da ascriversi, va detto, all’abilità dell’autore…
Ma, poco fa, enumeravo anche, tra i suoi meriti, la dovizia di linguaggio. E qui, davvero, ci troviamo di fronte a una sinfonia di parole, potentemente orchestrate utilizzando tutti i registri disponibili.
Infiniti gli echi e i rimandi letterari, da Montale (“la parete tutta rosa dal salso”; “il saliscendi dei muli”; “un frastuono di ferrame”, ecc.) a García Lorca (“la campagna si è riempita di grida”) a Biamonti (magari contaminato con Boine, “Quell’idea opposta di mare, le ondate degli ulivi e la collina crollante, mentre se lì davanti ci fosse un mare vero sarebbe una pianura che sale all’orizzonte”) a Jean Giono (l’accampamento dei lebbrosi, accostabile al campo dei tifoidei nell’Ussaro) al tradotto Haroldo Conti (“L’ombra gialla e polverosa delle colline sul mare”) a Erri De Luca (“I corsi d’ombra di una coppia di farfalle somigliano al passaggio di una nuvola”), per tacere dei sonetti shakespeariani (“Questi valloni assomigliano a oratori in rovina” – “bare ruined choirs”, “spogli cori in rovina”, Sonn. LXXII) e persino di Virgilio (“la notte riportava il silenzio amico” – “tacitae per amica silentia lunae”, “attraverso gli amici silenzi della tacita luna”). La menzione del “capitano Jules Redondo”, poi, mi fa pensare a un qualche personaggio del Conte di Montecristo, mentre “Nel sorriso di Dumont c’è l’infermiera, e ci torna spesso” mi richiama piuttosto una situazione hemingwayana…
Ma la prosa di Magliani raggiunge autonomamente, a ogni pagina, vertici di espressività e di efficacia evocativa o meditativa che lasciano ammirati gli “intenditori” (chiamiamoli così): “Il vuoto mediterraneo rimane impresso come un desiderio”; “Il giorno ha compiuto il primo scarto, è l’inclinazione sotto il peso, le giornate seguono i loro archi, e la demarcazione dei confini è il rotolo geografico del tempo”; “Il giorno si sfila, restano stracci all’orizzonte, il tempo dei camminatori galleggia e sprofonda nell’attesa. I rumori a una cert’ora si fanno gemiti, una specie di magone, il rospo della notte non aspettava altro che passassi tu per inghiottire la valle”; “Del viaggio rimangono impresse queste cose, le cose da poco, il genere di oggetti da vigna, anche se la vendemmia è ancora lontana, la riga di botti e damigiane poste sui muretti dei paesi, una fontana col cannello di legno, lo strano modello di erpice”; “Lo spettacolo della vegetazione, fin su per le fiancate, è in ciò che manca: il colpo di luna sulla rugiada; e in ciò che si sente: il filo d’acqua del corso e la brezza e poco lontano le rane, quelle di ieri notte, che s’alternano a quelle di stanotte”; “I nervi dei grilli e i colpi di lama, l’erba che crolla su di sé, e il fruscio della pietra di chi affila i ferri” – e potrei continuare così molto a lungo.
L’autore, da vero collezionista di vocaboli, mostra di conoscere nel dettaglio la terminologia nautica, le caratteristiche delle armi e quelle delle uniformi d’epoca.
Una notazione finale: il titolo ne ricalca, forse volutamente, un altro: “Il mandolino del capitano Corelli”, melodrammone inglese (trasposto anche al cinema) pieno di discutibili stereotipi sui soldati italiani durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma, se l’accostamento è deliberato, produce l’indubbio effetto di evidenziare, in virtù del contrasto, la qualità superiore di questo libro rispetto alla mediocrità dell’altro. Come raccontava Henri de Toulouse Lautrec: “Nell’antico Giappone, le dame erano solite presentarsi in pubblico in compagnia di una scimmia, in modo da risaltare la propria bellezza”. Ecco, qualcosa del genere…
Lettori, cosa aspettate?
Marco Grassano
Marino Magliani
Il cannocchiale del tenente Dumont
L’Orma Editore
2021, 296 pagine
20 €