Forse la mole, forse l’attenzione particolare agli aspetti giuridici più minuti, forse una (più supposta che effettiva) minore considerazione della questione antisemita, hanno contribuito alla limitata conoscenza di uno studio invece importante, Behemoth. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, opera di Franz Neumann, che peraltro non ebbe il tempo di assistere al tentativo – la soluzione finale – di cancellare gli ebrei dalla faccia della terra.
L’autore, ebreo egli stesso, morì nel 1942, in esilio. Nell’edizione ora in libreria per Mimesis, è il prefatore Carlo Galli a mettere in luce gli elementi controversi del lavoro di Neumann, che ebbe tuttavia il merito di costruire per così dire dal vivo una mappatura imponente del potere nazista. Di cui offre una lettura poco diffusa nella vulgata, la quale, concentrandosi come d’abitudine sul paradigma totalitario, farebbe fatica a rileggere l’orrore nazista in una chiave plurale, giusto il titolo che rimanda al mostro del titolo, confuso superficialmente con l’altro più noto, dell’Antico Testamento, il Leviatano.

La compagine mostruosa di Behemot – venuta a spargere il terrore sulla terra – è plurale: indiziaria nel caso non di un ordine unitario (come siamo adusi a pensare i totalitarismi) ma di un caos disarticolato, un coacervo di poteri in conflitto fra loro.
Sul versante economico per esempio tale lettura impedisce a Neumann di aderire alla teoria di un capitalismo di Stato. A suo avviso, economia monopolistica ed economia guidata sono locuzioni più appropriate in quanto maggiormente rappresentative dell’effettivo potere dei magnati, che il partito nazista non ebbe mai la forza di sottomettere.
Neumann ricorda come proprio un teorico del nazismo come Rosenberg mise in discussione il concetto dello Stato totalitario in quanto la stessa idea di Stato gli pareva inserita in una tradizione da superare. E lo stesso Hitler considerava sì la necessità di una totalità ma della razza, non di un organo astratto (“lo stato è un mezzo, non un fine”).
Per Neumann, potere economico, potere militare, amministrazione dello Stato nazista convivono insomma in un irregimentato equilibrio in cui il völkish fa da collante e legittima “l’imperialismo razziale”.
Difficile dare un quadro esauriente di un libro davvero immenso (quasi settecento pagine) in cui l’autore, prima di analizzare le strutture del nazismo ne ricostruisce la genesi (non dimenticando quel triste leitmotiv che ottant’anni dopo qualsiasi storiografia non può non riconoscere: come e perché le divisioni della sinistra abbiano sempre favorito l’ascesa delle destre criminali).
Conviene perciò sottolineare come la presunta sottovalutazione della questione antisemita in Neumann significa solo che egli non vedeva (come sembra inevitabile oggi ai più) nell’Olocausto la ragion d’essere principale del nazismo. Neumann si avvide però benissimo del potenziale esplosivo del problema razziale, tanto che poteva scrivere come in Germania la sovranità popolare non avesse mai avuto le caratteristiche della nazione in termini giacobini, men che meno democratici o popolari, ma vi si fosse incuneata una certa idea di superiorità “naturale”, a partire e con diversa intensità dai prodromi romantici di Herder, Schlegel, Treitschke.
Vero che le teorie più esplicitamente razziali di De Gobineau avrebbero individuato negli inglesi più che nei tedeschi i segni di una presunta superiorità per un futuro governo aristocratico dei forti, ma le tracce di una tragica linea di demarcazione dell’alterità tedesca erano visibili da tempo.
Se parliamo poi della questione ebraica, aveva cominciato tre secoli prima Martin Lutero; poi Fichte, Stirner, Dühring e molti altri – compreso il contributo miserabile di un grande musicista come Wagner – proseguirono sulla scia di una peculiare ossessione antisemita. Con motivazioni, massime nell’epoca hitleriana, anche diverse: accusati di essere insieme i peggiori capitalisti e gli occulti manovratori del comunismo.
Neumann non poté assistere agli estremi veleni dell’Olocausto ma descrisse puntualmente gli elementi decisivi della legislazione antisemita man mano che si avvicinavano alla catastrofe ultima; aveva cioè bene a mente quanto fosse potente il mito della purificazione del sangue, con tutte le implicazioni politiche, sociali, economiche (“non vi è quasi alcun vizio che non sia attribuito agli ebrei”).
E ne ricostruisce minuziosamente i dettagli – cosa che fa peraltro con tutto il potere nazista: apparati burocratici, dispositivi di legge, sistema delle organizzazioni industriali. Da cui però, si diceva sopra, emerge un quadro tutt’altro che unitario, compatto solo in apparenza e solo per il termine indiscusso della figura apicale del Führer.
E qui veniamo a un punto importante: se è vero che il fascismo non è un’ideologia ma un crimine, altrettanto può dirsi del nazismo. Neumann mostra come la torchiatura sanguinaria delle pulsioni più efferate fosse agita più dagli interessi economici che dalla sostanza ideologica.
L’antisemitismo funzionò come “palliativo della lotta di classe”; “forniva una giustificazione per l’espansione in Oriente”; ed era “espressione del rifiuto del Cristianesimo”, percepito come religione dei deboli, secondo il ben noto assunto nicciano (anche qui però, nel pieno della orrorifica temperie, Neumann si mostra lucidissimo nel rigettare la tesi in voga di un Nietzsche antisemita).
Direi che un merito non secondario del libro è quello di attenersi a dati empirici certi, che dopo anni di filosofemi avventurosi sulla “natura” del nazismo ci consentono un esercizio di salutare “verifica dei poteri”. Non è poco.
Michele Lupo
Franz Neumann
Behemoth
Struttura e pratica del nazionalsocialismo
A cura di Vincenzo Pinto
Traduzione di Vincenzo Pinto
Presentazione di Carlo Galli
Mimesis
Collana Eterotopie
2023, 634 pagine
28 €