Il secolo asiatico, il secolo africano, gli slogan mediatici si sprecano e il lettore comune si affida a suggestioni estemporanee che poco aiutano a comprendere e, a dir la verità, a nulla servono.
Se invece vogliamo approssimare una qualche plausibile idea non del mondo che verrà che parrebbe decisamente troppo ma del contributo che potrebbe derivare dal continente sarebbe già qualcosa studiarne la storia spostando lo sguardo dalle idee ricevute e affidarsi per esempio a un recente volume collettivo, L’Africa e il mondo, pubblicato in traduzione italiana da Add Editore.
La cura è di Francois-Xavier Favelle e Anne Lafont – al volume hanno dato il loro apporto studiosi e studiose poco note al pubblico italiano, fra cui Erika Nimis, Marie-Laure Derat, Jean Godefroy Bidima etc (bella la copertina di Sammy Baloji).
La stessa Lafont si è occupata in altre ricerche della ricezione del mondo nero in Europa, specie nell’ambito della rappresentazione artistica; qui diversi saggi si muovono nell’intersezione tra filosofia, ridefinizione della questione razziale, analisi storica. Partendo da un assunto comune: che per raccontare l’Africa fuori dagli stereotipi storici e mediatici, mostrarne la complessità di continente in rapporto col resto del pianeta (non dimenticando quello che abbiamo imparato a scuola, l’effrazione coloniale e i suoi precipitati storici, la povertà, la schiavitù, la spoliazione delle risorse) occorrono altre prospettive, altri sguardi e movimenti dialettici.
Dialettici perché i vari contributi dimostrano come l’Africa non abbia soltanto subìto il mondo ma non ha mai cessato di giocarvi un ruolo attivo. Si tratti di religioni, arte, intrapresa commerciale, risulta evidente l’ampiezza dell’innesto africano nella storia globale del pianeta, per quanto spesso difficile risulti parlare di scambi alla pari, avendo l’Europa potuto più volte infilare il suo nodo scorsoio sul collo africano.
Ci sono molte afriche dentro l’Africa. Pensiamo solo alle religioni; v’è quella dei culti e delle religioni native (peculiari ognuna a modo proprio), quella cristiana, quella mussulmana. E altrettante afriche fuori dal continente.
Naturalmente, questo il senso del libro, la compenetrazione dei diversi apporti incrocia soluzioni (e non solo conflitti) inaudite, e determina spostamenti di orizzonti sia dentro che fuori il continente: muoversi per esempio dai deserti, a causa dello sfruttamento delle risorse coloniali (e dai loro strumenti di sopravvivenza, che non sono solo economici ma anche culturali) verso le caotiche megalopoli (esempio tipico di quelli che Timothy Morton definisce Iperoggetti, fenomeni di tali dimensioni e plurime stratificazioni irriducibili a una cifra unitaria e perciò comprensibile) comporta tali sbandamenti da richiedere anche allo studioso, allo storico approcci rinnovati.
A maggior ragione ciò vale per le interconnessioni dei mondi africani con quelli altri: policentrici, dialogici sono pertanto gli occhiali necessitati da questi assunti, e così il coro di voci che compone il libro intercetta nuove articolazioni. Marie-Laure Derat indaga il côté commerciale che dalle rotte sahariane s’imbatte nella svolta drammatica della schiavitù ma implica il corollario inevitabile delle interazioni religiose.
Si veda l’islamizzazione del nord-Africa e poi dell’Ovest: esegesi del fenomeno tutta da riscrivere per Souleymane Bachir Diagne, il quale critica l’obsoleta interpretazione che voleva gli africani occidentali predisposti “naturalmente” alla schiavitù, mito costruito forzando la lezione biblica dei neri come discendenti di Cam.
Rimanendo geograficamente nei pressi, va detto che la nuova storiografia africana di cui il volume è un esempio, si avvale dei cosiddetti studi di Timbuctù, ovvero del non trascurabile lascito di opere in lingua araba recuperata nel Sahel. Da cui per esempio emerge la disomogeneità dell’influsso islamico sul continente, la serie variabile degli incroci e la diversa temporalità in cui gli scambi (o gli scontri) hanno disegnato la mappa culturale, fra movimento moderno e fedeltà alla tradizione (mai più che in questo caso, inventata), fra imposizioni ortodosse e vie di fuga preziose (si pensi al sufismo). O ancora, si diceva degli interessi artistici della curatrice Anne Lafont – inutile spiegare quanto l’intera storia dell’arte novecentesca sia debitrice dell’Africa.
Tuttavia, sradicamento forzato o deportazione vera e propria, schiavitù e sfruttamento, il peggio che qualsiasi manualetto scolastico ha spiegato a un ragazzino implica il non detto di una semplice messa a disposizione di una storia estetica in favore delle curiosità romantiche prima e delle avanguardie occidentali poi.
Lafont invece mira a cogliere gli elementi di un’opposizione a queste tragedie, rovesciata nella realizzazione di “mondi simbolici e materiali”, pratiche, tecniche, manufatti, cerimonie (per esempio nella musica, nella danza) con una propria grammatica, dalla quale è possibile desumere che l’Africa non sia stata soltanto “preda” ma anche “predatrice dall’interno”.
Così altri aspetti della vita sociale (le modalità dell’agone politico, per dirne una, la questione della palabre, dell’oralità sottratta anche qui a una serie di pregiudizi storiografici) vengono rivisti dentro questo nuovo regime della complessità interdipendente, in cui il continente nero si mostra capace di una propria agency che fa piazza pulita del canone eurocentrico. E la militanza nera che si esprime in varie parti del mondo sta a testimoniarlo.
Michele Lupo
L’Africa e il mondo
Riannodare le storie dall’antichità al futuro
a cura di François-Xavier Fauvelle e Anne Lafont
Traduzione di Marco Aime, Andrea de Georgio, Giulia De Marco, Anna Donà
Add Editore
2024, 488 pagine
35 €