Forse perché lo stato delle cose odierno enfatizza il contrasto fra la disistima per la sua storia politica e l’attrazione per quella culturale, in specie letteraria, ma chi ci legge sa che spesso scriviamo di Russia. Oggi, approfittando delle più interessanti fra le recenti uscite adelphiane vi aggiungiamo la Cina, et pour cause.
Un enorme volume – in tutti i sensi – che viene da quel paese uscito in inglese diversi anni fa viene tradotto solo ora e si tratta di un evento non da poco, perché se la bibliografia occidentale sui totalitarismi di destra e di sinistra è molto vasta, la conoscenza di quello cinese vanta meno titoli, e, a meno di dimostrare l’infondatezza di quanto raccontato – con abbondante dispiegamento di documenti – da Yang Jisheng in Lapidi, una pietra tombale si può mettere sopra l’esperienza del comunismo chez Mao.
In Lapidi si raccoglie tantissimo materiale, documenti, archivi, memorie, della Cina del cosiddetto Grande Balzo in Avanti, locuzione con la quale Mao credette di dare scacco matto a chi lo accusava di avventurismo e che invece nascondeva il più spaventoso – preterintenzionale d’accordo, ma doloso? colposo? – massacro per fame che la storia ricordi. Si parla di 36 milioni di morti per una carestia dovuta all’inconsulta collettivizzazione forzata e al trapasso frenetico da un’economia rurale all’industrializzazione fra il 1958 e il 1962.
Il padre dell’autore ebbe in sorte la stessa morte atroce, da addebitare secondo Yang Jisheng per intero alla scellerata e criminale politica di Mao. Per motivi tutt’altro che limpidi il leader cinese compare assai meno della classica triade – Hitler, Stalin, Mussolini – evocata nella storiografia e nella pubblicistica di qualsiasi livello alle prese con i temi dei totalitarismi, dei capi carismatici etc. Mao invece è parte integrante della serie e su questo punto la disamina dell’autore è incontrovertibile. Un’antica disposizione al dispotismo di tipo orientale coniugata con le più ostinate pratiche collettiviste dell’amico-nemico sovietico.
Mao proseguiva sotto la bandiera rossa una vocazione imperiale ben nota al suo paese. A nulla valsero le preoccupate perplessità dei rari oppositori interni che suggerivano un approccio più graduale al rinnovamento dell’economia e della società cinesi – a Mao non si poteva disobbedire. Lo comprese sulla sua pelle Zhou Enlai, fra i capi storici del partito, più volte tentato di opporsi a Mao, infine ridotto a tesserne le lodi più sperticate e improbabili. Lo stesso Mao riteneva – lo dichiarava pubblicamente – che non vi fosse alcunché di sbagliato nel culto della personalità, se esse (lui come Marx o Lenin etc) detenevano la verità.
La collettivizzazione radicale, nel senso che eradicava il terreno non solo dei contadini benestanti ma la stessa possibilità di sussistenza di quelli più indigenti seguiva i medesimi processi visti altrove, segnatamente nello stalinismo: paura e propaganda, organizzazione militare e controllo capillare di qualsiasi momento della vita quotidiana. “Decine di milioni di persone scomparvero così, nel silenzio e nell’indifferenza” scrive Yang, nel delirio delle mense comuni, nell’esproprio non proprio proletario di posate e utensili da cucina, nella viltà opportunistica dei quadri che collaboravano attivamente alle decisioni sbagliate e riferivano ai vertici ciò che essi volevano sentirsi dire: effetto tipico del totalitarismo.
Slogan, propaganda martellante, incapacità operativa. Non tutti concordano con il lavoro di Yang, il quale ricorda la propria stessa infanzia di miserie e decide di farvi i conti solo nel 1989, dopo piazza Tiananmen. V’è chi attribuisce le cause dell’immane tragedia anche ad altri fattori, ma resta la responsabilità di un indirizzo dato dal partito – meglio, dal capo – che nessuno volle correggere in corsa nonostante l’evidente contraccolpo alle eventuali buone intenzioni.
Di fatto, come in ogni totalitarismo, il regime s’impose anche nella vita privata delle persone, quella amorosa compresa. Le “tre bandiere rosse” ossia la Linea Generale, il Grande Balzo in avanti e le comuni popolari ridussero la vita di milioni di cinesi a un sistema di oppressive caserme, pian piano ridotte a enormi campi funebri, in cui non mancò il cannibalismo (come durante la successiva rivoluzione culturale).
La nuova Russia
Opera meno terribile, La nuova Russia di Israel Joshua Singer (1893 -1944), ma interessante sugli sviluppi di un’altra rivoluzione comunista. Israel Joshua non ha goduto della fama del più noto fratello Isaac Bashevis; non lo aiutò il fatto che scrivesse in yiddish. Condannato perciò almeno in Italia a una certa marginalità, Adelphi lo portò anni fa da noi con un bel romanzo La famiglia Karnowski, cui ne sono seguiti diversi altri.
Nel 1926, lo scrittore fu spedito in Russia dal quotidiano americano Forverts, per realizzare un lungo reportage che ora per la prima volta viene raccolto in un libro. La richiesta non era dettata come si potrebbe immaginare dall’ovvia ma inquieta curiosità di un giornale americano verso accadimenti epocali; il quotidiano aveva una chiara impronta yiddish, con simpatie socialiste, come quelle dell’ottimo Singer, il quale in Russia era già stato nei mesi della presa del potere bolscevica.
Nella redazione americana le simpatie socialiste di cui sopra erano destinate a rimanere deluse dai dispacci che arrivavano da un osservatore attento e sensibile a una certa causa ma abbastanza lucido per raccontare quanto vedeva senza pregiudizi. Il suo sguardo trascorre da città a campagne, si sofferma su cose piccole e grandi, comprese quelle dei coloni ebrei. Incrocia le genti più disparate, in qualche modo riuscendo a intervistare chiunque immagina possa aiutarlo a comprendere ciò che accade.
Dal comunismo di guerra cui aveva assistito nel primo viaggio si è passati attraverso la NEP e ora Mosca gli appare come un caravanserraglio di splendori e miserie, trovarobe e contraddizioni, “di vecchio e nuovo”, come ripete spesso. La città è assai cara, anche se le attività, ristoranti comprese, sono quasi sempre di gestione pubblica; ci sono moltissime scuole per bambini ma molti di più sono quelli per strada; ai pieni diritti per le donne sventagliati dalla propaganda fa da contraltare la prostituzione diffusa.
Sono cronache meticolose ma anche svagate; lo sguardo è il più libero possibile, spesso Singer evita di esprimere giudizi ed è attentissimo ai dettagli. Non proprio dettagli sono le bottiglie di vodka tracannata in quantità industriali (anni prima i bolscevichi avevano provato a impedirlo senza riuscirci); né possono esserlo le immagini che ricordano ai russi l’ultima icona santa, Lenin, incombente ovunque. Anche a Odessa, ingabbiata nelle maglie di un progetto ideologico che le toglie l’antico respiro di città eccentrica, modernissima, aperta. Fuori dalle grandi città, quel che interessa Singer sono i villaggi ebrei – scopre le cooperative, il distacco dalla tradizione, il cambiamento che anche fra gli ebrei produce il comunismo, la paura di essere spiati.
Forse si potrebbe riconoscere nelle perplessità di Singer la rivelazione di un equivoco, probabilmente a monte di tutta l’intrapresa comunista: una razionalità malintesa destinata a produrre una paranoia storica, un dover essere che non coincide più con un’istanza umana ma ideologica: una reificazione dell’uomo a idea. Non diversamente da quanto accaduto alle religioni s’ipostatizza una realtà superiore cui bisogna aderire a tutti i costi, nessuno escluso – bel paradosso per una filosofia materialista.
Memorie di un pazzo
Chissà cosa ne avrebbe pensato Gogol’, di cui l’editore milanese licenzia una nuova traduzione, a cura di Serena Vitale, delle Memorie di un pazzo, racconto del 1835. A detta di Nabokov, il racconto di Gogol’, scrittore a lui congeniale, era puro scarto immaginativo, invenzione funambolica di una scrittura capace di creare un a-parte con ragioni o deliri tutti suoi. In questo caso, il suo personaggio estremizza un delirio non lontanissimo da quello biografico di una vita fatta di ombre, fantasmi, idiosincrasie spiccate.
Il punto è: quanto di questo equilibrio psichico vacillante era a carico di un lavoro detestato, quello dell’impiegato/funzionario, moscovita o pietroburghese, figura peraltro e non casualmente assai diffusa nella narrativa russa, afflitto da una burocrazia e un concatenamento di servitù paralizzanti, nemiche della persona, e quanto sia stato logicamente sequenziale che proprio in paesi come la Cina o la Russia si siano date forme politiche aberranti dove si aspettava il paradiso e invece un apparato mostruoso riduceva la vita a una prigione?
Il libretto contiene anche frammenti da una commedia incompiuta, Il Vladimir di terzo grado, pubblicata soltanto nel 1889, anch’essa alle prese con il Moloch di uno Stato oppressivo, sostanzialmente alieno.
Michele Lupo
- Yang Jisheng
Lapidi
La Grande Carestia in Cina
Traduzione di Natalia Francesca Riva
Adelphi
Collana L’oceano delle storie
2024, 836 pagine
38 € - Israel Joshua Singer
La nuova Russia
Traduzione di Marina Morpurgo
Con una Nota di Francesco M. Cataluccio
A cura di Elisabetta Zevi
Adelphi
Collana Biblioteca Adelphi
2024, 276 pagine
19 € - Nikolaj Gogol’
Memorie di un pazzo
A cura di Serena Vitale
Adelphi
Collana Piccola Biblioteca Adelphi
2024, 103 pagine
10 €