Perdetevi. Questo è il segreto: smarritevi per una città. E, così facendo, la conoscerete. Certo, se vi sentite più sicuri tenete pure nello zaino la guida della Lonely Planet o la Guide Routard; magari nella tasca dei jeans portatevi una mappa di Parigi, utile per ogni evenienza, o il cellulare con l’affidabile Google Maps.
Ma muovetevi da soli, lontano dalle comitive assetate esclusivamente di luoghi mainstream, di must have, di selfie, e di scatti instagrammabili.
Lasciate quindi che la scoperta vi colga di sorpresa a ogni angolo: come un regalo inatteso. Sia esso un palazzo con dei fregi particolari, una statua, un bistrot, una libreria (magari non l’inflazionata Shakespeare and Co. che sorge ai margini nord del Quartiere Latino). Così facendo, anche i luoghi più celebrati vi verranno incontro, non come una destinazione inevitabile, bensì come un’apparizione improvvisa che lascia a bocca aperta e fa dire “ah, eccola qui!”.
È così che ho assorbito la magia del Quinto Arrondissement, più noto come Quartier Latin che tanto ha affascinato scrittori, pittori, e artisti vari, soprattutto negli ultimi due secoli.
In una giornata di gennaio, con il vento gelido che spazzava i boulevard e un cielo grigio e piatto a spogliare ogni elemento urbano di qualsiasi colore, mi trovai a passeggiare con mia figlia Rachele lungo i vialetti dell’elegante Jardin du Luxembourg, fioriti e curati anche in questa ostile stagione. Sulle panchine, indifferenti all’aria tagliente che li sferzava, i parigini (col bavero dei cappotti rialzati e le sciarpe a riparare il collo) si godevano il mattino: chi leggendo Le Figaro, chi gustando una colazione à emporter (l’immancabile pain au chocolat, ça va sans dire), chi semplicemente osservando gli imperscrutabili movimenti dei piccioni sulla ghiaia.
Poco oltre, Rue du Sufflot incrocia Boulevard Saint-Michel e prosegue in direzione della Sorbonne.
Provai a immaginare il fermento che animava questi ampi viali negli anni intorno al 1968, quando la rivoluzione di maggio infiammò la capitale francese propagando poi quell’effimera illusione per tutta Europa e oltre l’Atlantico. Di quei giorni convulsi di grandi aspirazioni resta poco, anzi nulla: la sobria ed elegante facciata dell’Università spunta dai tetti dei palazzi che fiancheggiano l’elegante vialone punteggiato di boutique e di vecchi edifici di culto trasformati in luoghi per esposizioni artistiche, dove un tempo c’erano le barricate.
Improvvisamente, ecco la poderosa cupola del Pantheon, una specie di polo magnetico che attrae inconsapevolmente qualsiasi flâneur.
Aspettando pazientemente di accedere alla gloria dell’Olimpo scientifico e culturale francese, mi divertii a fotografare le geometrie austere del pronao neoclassico, che affaccia sull’Università, mentre mia figlia saltellava, e per scaldarsi, e per la curiosità di vedere la tomba di Marie Curie.
Una volta reso omaggio alle migliori menti di Francia, ed esserci soffermati sull’ipnotico e misterioso movimento del Pendolo di Foucault che oscilla sotto l’enorme cupola, decidemmo di girovagare oziosamente alla ricerca di una crêperie dove pranzare, perdendoci senza fretta nel reticolato di vie a sud del Pantheon, fino a incrociare Rue Mouffetard.
Questa via, una delle tante che si possono percorrere in questa zona, esprime perfettamente l’atmosfera che rende Parigi una città dal fascino rétro: una pescheria ben fornita, un fruttivendolo con la merce in bella vista sui banchi lungo i marciapiedi, una libreria di testi antichi sprofondata nella penombra polverosa, vari ristoranti etnici per tutti i gusti, l’immancabile boulangerie con le baguette dorate nelle ceste e altre delizie in vetrina; le grandi catene commerciali con i loro negozi stereotipati che generano un senso di avulsione dal luogo reale, sono ben distanti da queste zone.
Rachele e io convenimmo sulla scelta di un piccolo pub dagli interni rivestiti in legno, un bancone con le spillatrici, in un angolo un antenato in legno verniciato del bowling da tavolo, e alcuni tavolini di ferro sul marciapiedi: Le Requin Chagrin.
Seduti a uno di quei tavolini all’aperto, dimentichi dell’ora e adeguatamente imbacuccati, mentre Rachele divorava con sorprendente voracità prima un hamburger e poi una tarte tatin con corredo di boule di gelato alla vaniglia (che avrebbe riscosso l’approvazione del direttore di ALIBI), fumai la pipa alternandola a sorsi di Pastis, osservando il pigro passaggio pomeridiano dei locali. Lessi alcune pagine de La veuve Couderc del mio amato Simenon, prima di riprendere il passeggio.
Più tardi ci trovammo a passeggiare per un budello carico di reminiscenze napoleoniche, Rue Rollin, che corre lungo due ali di palazzi austeri, fino a giungere a Les Arenes de Lutèce, un sito archeologico dove vidi anziani parigini, neghittosi durante quelle ore che precedono l’imbrunire, assorti a contemplare le tracce dell’epoca remota in cui la loro città, ben prima di essere la Ville Lumière, era solo una colonia ai margini dell’Impero.
Poco oltre e fino alla riva della Senna sorge Le jardin des plantes, che comprende un Parco Botanico, lo zoo, e un ricco Museo Nazionale di Storia Naturale (tre cose per le quali la ragazzina che spesso mi accompagna in giro per il mondo va pazza).
Visitammo il museo respirando la polverosa atmosfera che si può trovare solo nei musei antichi, un sentore di tempo remoto e luoghi esotici. Attraversammo poi l’esteso giardino botanico, mentre la luce scemava lentamente colando nel cuore sotto forma di malinconia, e la cappa grigia del cielo si condensava in pioggia fine. I passi crepitavano sulla ghiaia sottile dei vialetti.
L’ennesima perla di questa giornata di piccole sorprese e piaceri semplici ci aspettava poco oltre i cancelli del Jardin de Plantes: la Grande Mosquée de Paris, con le sue forme arabeggianti, e le fontane, e i mosaici, ci attirò per una visita estemporanea, mentre un pullulare di fedeli di Maometto affluiva nella grande sala centrale per la preghiera.
All’interno delle mura di cinta della moschea, ma fuori dal locale espressamente dedicato al culto, si trova un hammam riservato alle sole donne e un cortile coperto da tende, dove gustare del tè verde accompagnato da pasticcini tipici della tradizione araba. I camerieri con i lunghi abiti bianchi si muovono elegantemente fra i tavolini reggendo ampi vassoi sui quali sono esposti i dolci fatti con miele e frutta secca, lasciando la scelta agli avventori.
Ci godemmo quei sapori di terre lontane, circondati da archi moreschi, lasciando che il tempo scorresse, senza nemmeno gettare uno sguardo all’orologio né al cellulare, discorrendo della giornata appena trascorsa e dei sogni intatti di un’adolescente.
Una nuova passeggiata ci attendeva, alla ricerca di un posto dove cenare, magari con ostriche normanne e champagne, e poi il rientro in albergo.
Ma non c’era fretta.
Simone Cozzi