Sesta puntata del reportage di Marco Grassano sul suo soggiorno pasquale a Creta.
All’alba, il tempo è livido. Il vento spruzza sparute raffiche di gocce contro le finestre. In mezzo a uno dei vetri, arrivata lì chissà come, una chiocciola protende, per orizzontarsi, i tentacoli oculari. Quando, più tardi, mi alzo, il cielo è sereno e l’animaletto non c’è più.
Dopo colazione faccio il bucato, lavando, sciacquando e strizzando un po’ di biancheria, e stendendola sulle sedie a ridosso delle ante socchiuse. La sensazione di serenità, per ora, si protrae. Decido quindi di andare a Galatás già nella mattinata.
Passo in chiesa, per una sosta di riflessione e per accendere le mie candele. Non sono diventato credente, ma avverto il bisogno di partecipare all’emozione particolare di questi giorni festivi. D’altronde, sono venuto fin qui apposta. Anche Theodorakis, pur con le idee politiche che lo hanno sempre contraddistinto, ha attraversato ben quattro cerimonie religiose (ad Atene, qui a Chaniá, a Galatás e nella cappelletta del cimitero) prima di essere sepolto.
Quando esco, lungo il tratto di Chálidon prospiciente il sagrato trovo il suonatore di bouzouki di ieri sera. Sta eseguendo, in questo momento, il toccante Valzer n° 2 di Dmítrij Šostakóvič [Nota 1]. È una musica che mi commuove molto, perché accompagna, nel film di Vittorio De Sica I girasoli, le immagini degli sterminati campi russi in cui erano caduti i nostri alpini. In ciò si ricollega a Bella ciao, penso. Rinnovo l’elargizione all’artista e mi allontano. Più che immagonito, sono furibondo per la corta memoria storica degli italiani.
Nella Skalidi, dirimpetto alla nota farmacia della dottoressa Eleni Somaki, un sostegno metallico con affisse locandine richiama la mia attenzione sullo spettacolo To tavli, previsto per Triti 7 Maiu (ossia, martedì 7 maggio) – ora 21:15 – presso il Théatro MIKIS THEODORAKIS Chaniá. Mi stavo giusto domandando se durante il mio soggiorno vi avrebbero organizzato qualcosa cui assistere, come nel 2021. Benissimo, ci andrò.
Riprendo il cammino, senza però avvertire il gradevole, allegro straniamento di allora. Si cambia, nella vita.
Per superare i molteplici, a volte complessi incroci, non chiedo informazioni, non occorre: ricordo che devo mantenere la direzione di Plataniás fino al bivio che sale verso sinistra.

In corrispondenza di uno dei semafori, si erge un edificio cubico con la vistosa insegna bianconera Kathastírio – Laundry. Curiosa, questa sovrapposizione semantica tra purezza e lavaggio. Ai suoi piedi, una villettina unifamiliare cui hanno apposto la targa toponomastica blu Leofóros Miki Theodoraki. L’intitolazione del viale, ineccepibile nel merito, deve essere recente, visto che non risulta ancora né sulla mappa datami da Kostas, né su quelle consultabili in rete.
Il percorso mi pare assai più lungo di quanto rammentassi. Per un attimo, temo di aver sbagliato strada. Ma no: semplicemente, mi è diventato più faticoso deambulare. Non solo si cambia, si invecchia anche.
Blande svolte e lievi saliscendi. Indicazioni, verso destra, per raggiungere spiagge. Riconosco la biforcazione e la imbocco. Non riscontro mutamenti sostanziali. Certo, la stagione è un’altra e la vegetazione adesso freme di vitalità: sul lato sinistro sta fiorendo una spalliera di gelsomini; da questa parte, nei pressi delle spaziate abitazioni, squillano già di corolle gli oleandri rosa, gli oleandri bianchi e soprattutto le stracariche buganvillee.
Le case si infittiscono ad accogliere un intreccio di strade in curva e in pendio. Qui, lo devo ammettere, non mi raccapezzo, la memoria cede. Vado comunque avanti. Sulla destra, un campo da calcetto dove si scorge, dall’alto, il mare. Un ragazzino con la maglia rossa di qualche club greco vi palleggia in totale solitudine. Trovo assai triste praticare senza nessuna compagnia uno sport concepito per essere giocato in squadra e alla presenza del pubblico. Poi, magari lui triste non lo è affatto, per carità…
Appena dopo, la sobria, squadrata Villa Antoni mi ricorda una collega scomparsa. Segue la caserma della Touristikí Astynomía, o Tourist Police. Domando all’agente in divisa seduto fuori dove sia il Cimitero. Mi risponde di essere arrivato qui da poco e di non saperlo; fra trecento metri, comunque, c’è la piazza, posso rivolgermi lì. Intuisco allora che mi trovo all’altro capo del borgo. A breve dovrebbe apparire la freccia per la casa di Theodorakis. E, in effetti, eccola spiccare su un muretto luminoso di calce recente, in capo al vicolo che mette nel piccolo spiazzo ove sorge l’abitazione: anonima, beige, a un solo piano.

Non ci sono più i messaggi di cordoglio appesi al cancelletto. Le aiuole dispiegano sgargianti fioriture. Il resto del giardino è occupato da radi alberelli di diverse specie e da un annoso eucalipto. Guardando attraverso le finestre, si può osservare l’interno dell’edificio (sedie, scaffali, foto alle pareti), divenuto Centro Culturale in memoria del musicista e del fratello Ghiannis, giornalista, suo paroliere in molti brani. Oggi, come prevedibile, è chiuso al pubblico.
Ridiscendo nella strada principale dalla viuzza dell’altra visita, curva fra casupole accalcate. Mi soffermo un attimo di fronte alla chiesa. Ormai so benissimo dove andare. La cappella dei gatti (in questo istante non ce ne sono). Al bivio di Chaniá continuo momentaneamente dritto, in cerca della palazzina dove avevo ottenuto le informazioni. Credo di averla individuata. Proseguo quindi sul percorso originario fino alla chiesetta d’angolo, i cui alberi si stanno appena riprendendo dalla potatura. La segnaletica relativa al Cimitero è scomparsa, ma posso farne a meno.
Neppure su questo viottolo la situazione è cambiata. Le cime delle montagne sullo sfondo presentano, incredibilmente, qualche residua chiazza di neve nei punti che Italo Calvino denominava “opachi” (in opposizione agli “aprichi”). Volgendo invece lo sguardo a nord, mi trovo di fronte una fascia di ulivi nani, con tetti che emergono e un’incombente marina di zaffiro. La visione pare tradurre i versi di Ritsos: “In lontananza le case rilucevano sparse tra gli alberi e nell’aria / e la grande distesa del mare sfolgorava nella memoria / come il riverbero di una finestra su un bicchiere appena lavato”.
Raggiungo il camposanto. Dentro la cappella, stanno armeggiando e discorrendo tre donne. Penso siano lì a fare le pulizie, perché il loro chiacchiericcio non ha proprio nulla della preghiera.
Mi fermo di fronte alla tomba, resa abbacinante dal sole. Piccoli omaggi deposti sotto il nome inciso: una rosa rossa (Kókkino triandáphyllo, secondo il titolo della canzone) bloccata da una pietra; una scheggia di ardesia con un’altra rosa rossa dipinta e con la scritta Athánatos.

Sul lato destro, vasi di succulente e la reminiscenza classica di una melagrana. Sul lato sinistro, altre piante grasse, una maiolica – datata 27/7/2022 e lasciata “in Onore e in Memoria del combattente per la Libertà Mikis Theodorakis” – su cui hanno riprodotto il mare, la costa e la bandiera greca, e sovrascritto i versi dell’ottavo movimento dell’oratorio Áxion Estí [2], e infine una scatoletta trasparente con un pugno di terra accompagnato dal messaggio (smanettando col cellulare, lo decifro): “Caro fratello Miki, riposa in pace con questo pezzo di Serbia, i Serbi ti amano”. Io non ho nulla da offrire, se non la commozione che di nuovo mi assale e mi inumidisce gli occhi. Prelevo, come ricordo, un sassolino bianco dalla cavità di destra.
Tutta questa attività fisica ed emotiva mi ha però giovato, perché mentre torno in città avverto un senso di leggerezza e di benessere che non mi aspettavo più. Nei fossi, deturpati dalla presenza di immondizie, crescono cespi di fiori spontanei violetti, arancioni e azzurri.
Accostata alla vetrina di un negozio ristrutturato da poco, appena prima che inizi la Skalidi, una donna ancor giovane, con fianchi e cosce dalla volumetria esorbitante avvolti in pantaloni di tela rosa, mi desta il ricordo di un controllo svolto circa venticinque anni or sono presso un rottamaio illegale, in cui era apparsa un’analoga figura da Corte dei Miracoli.
Pranzo alla Argo. Rientrando in camera per una pausa di riposo, incontro Sophia, cui racconto della mia gita fuori porta; lei si stupisce ch’io sia andato e tornato a piedi. Mi concedo poi, da vero flâneur, un rilassato giro sulla muraglia ovest (l’edificio iniziale ospita ora un bar dai tavolini interni pieni di giovani), nel quartiere veneziano (che comincia a essere gremito di turisti stranieri) e al porto.

Si possono notare, ovunque e a ogni ora, spazzini e netturbini attivi coi loro piccoli motocarri ecologici verdi, recanti l’acronimo DEDISA sul cassone di legno; nei vicoli più stretti, usano carrelli elettrici. Una micia tricolore cerca cibo in un bidone dei rifiuti indifferenziati, aperto. Il grande yacht visto la prima notte ha appena lasciato la darsena e sta prendendo il largo. Un’altra tricolore, a pelo lungo, siede placidamente nel mio vicolo. Una delle motorette parcheggiate lungo l’ultimo tratto di via Canevaro presenta la curiosa targa negazionista NOO 48. Meno male che in greco “No” si dice “Ochi”!
Prima di andare a cena da Vassilikós, mi soffermo a contemplare il tramonto. Il sole, quasi scomparso, orla d’oro e di arancio il profilo della costa, mentre gli edifici fino al museo marittimo, la fortezza, il faro (ancora spento) e la diga (sulla quale camminano gruppi di persone) si stagliano, per contrasto, tenebrosi.

Di fronte all’Arsenale (o Neória) indugia l’ennesima gatta tricolore. Veduto dalla taverna, il cielo occidentale è una striscia dorata, rosea e violetta dietro le alberature delle imbarcazioni all’ormeggio. Il piccolo battello dove si vendono oggetti artigianali di conchiglie sfolgora come un diamante.
Ordino dolmadakia e polipo grigliato (poi, pensando a mia figlia, me ne pentirò, e per il resto del soggiorno non mangerò più cibi derivanti da animali morti). L’attiva cameriera – bruna, coda di cavallo, fisico impeccabile – indossa una pantacalza di maglina grigia attillatissima, che si infossa nel solco fra le natiche e disegna la sagoma delle succinte mutandine. Mi si innesca un cortocircuito mnemonico, ma non riesco a focalizzarlo. Data la sua età indefinibile, avrebbe potuto benissimo essere già in servizio quando cenammo qui nel 2019.
Al tavolo accanto mangiano e conversano con voce arrochita (forse per il fumo, o forse per le primavere) due ossigenate dame di lingua spagnola, un’argentina e un’andalusa: strano connubio. Un branco di almeno sei gatti (mascherati, tricolori, rossi, soriani…) si aggira per il dehors e implora, anche impennandosi verso i clienti, qualche boccone. Le povere bestie vengono accontentate.
Marco Grassano
Sesta puntata. Segue
Note:
[1] Si può ascoltare su YouTube.
[2] Così suonano tradotti dal compianto attivista ellenofilo Gian Piero Testa: “Sole ideale della giustizia – e tu mirto della gloria / no, vi prego, – non dimenticate il mio paese! // Ha gli alti monti in forma di aquile – e sui vulcani festoni di vigne / e le case più bianche – nel quartiere dell’azzurro! // Le mie mani tristi con il Fulmine – le riporto indietro dal Tempo / chiamo i miei vecchi amici – con minacce e sangue!”
Didascalie:
- La purezza e il lavaggio in viale Mikis Theodorakis…
- Casa Theodorakis
- La tomba del maestro
- Lo yacht se ne va
- Tramonto sul porto