Con questa puntata inizia il reportage di Marco Grassano sul suo soggiorno pasquale (dal 2 al 10 maggio 2024) a Creta.
Sosta all’aeroporto di Atene, attendendo la coincidenza per Chanià. Durante il volo, non ero seduto accanto al finestrino e non ho visto molto paesaggio. Ne ho approfittato per rileggere l’Edipo Re, tradotto da Salvatore Quasimodo. Condivido la battuta di Creonte, “Non amo dire quello che non penso”, e la conclusione della tragedia, “Mai nessuno giudichi felice un uomo prima del giorno della morte, prima che la sua vita sia trascorsa priva di dolore”.
Mi ha colto un po’ la malinconia, devo dire, perché ieri ho passato la giornata con mia figlia e ora ne avverto tantissimo la mancanza. Ma, guardando fuori dalle vetrate, i rilievi orografici, anche minimi, campeggiano così puliti, così nitidi sullo sfondo azzurro, che mi pare prenda corpo, per me, il verso di Ghiannis Ritsos “Tutti masticano un tozzo di cielo contro l’amarezza”.
Decolliamo di nuovo. Ora sono seduto all’estremo babordo, e posso guardare fuori. Nei dintorni della pista, pannelli fotovoltaici a terra disposti in schiere, come opliti. Case sparse – quasi un lancio di dadi – più o meno folte, ma sempre con un sesto regolare. Terrazzamenti simili a strade che salgano zigzagando bruschi pendii. Un porticciolo. Una penisola allungata e stretta. Radi mercantili, come formiche, avanzano paralleli ma in direzioni opposte, lasciando o meno una scia, forse secondo le correnti. Un isolotto scosceso, senza visibile antropizzazione.
Poi, fino all’orizzonte, l’azzurro vuoto del mare, un po’ velato da una fascia di costante foschia. Il sole entra, trasversale, dagli oblò dell’altro lato. Quest’immagine perdura a lungo. Scendendo, ci reimmettiamo nella caligine, affondando sotto il suo pelo, che rimane comunque visibile guardando in su.
Mi viene in mente l’immagine dantesca di Nettuno mentre, dal fondale, osserva scivolare sopra di sé l’ombra della nave Argo. Pochissimo dopo, compare la costa cretese, con la sua roccia brulla e con le costruzioni che tendono a coagularsi in direzione della riva. Viriamo verso sinistra, inclinandoci di parecchio, quindi ci disponiamo all’atterraggio.
La scura superficie marina è fittissimamente increspata. Le rupi che abbiamo scorto si rivelano essere quelle sovrastanti la baia di Zorba, e le abitazioni il borgo di Stavrós. Case sparse anche nell’entroterra. Uliveti e ancora uliveti, su un suolo rosso. Ci posiamo delicatamente.
Siamo partiti – e quindi arriviamo – in ritardo. L’autobus delle 19:30 se ne è già andato. Devo ricorrere ancora al taxi, una Mercedes nera: senza mascherine né disinfettanti, stavolta, e con più luce sul paesaggio, ma seguendo lo stesso percorso. Una moto con due centauri ci sorpassa, rombando in maniera esagerata. Io esclamo “Eh la Madonna!”; il brizzolato conducente ridacchia. Mi lascia sulla Canevaro, appena prima delle rovine coperte, estraendo il trolley dal bagagliaio.
Sophia mi accoglie con un sorriso e un abbraccio, poi mi accompagna di sopra, nella stessa stanza che avevamo occupato durante il primo soggiorno. Parliamo delle celebrazioni pasquali. Mi spiega che oggi, Giovedì Santo (Megali Pempti), si commemora l’Ultima Cena (Mystikós Dipnos), preparando, per la Pasqua, le uova sode colorate di rosso (a richiamare il sangue di Cristo), le ciambelle e il pane; il rito solenne sarà invece domani sera. Mi consiglia di non andarlo a vedere in Cattedrale, ma piuttosto in qualche chiesa secondaria, come Aghios Konstantinos, a ovest del centro storico.
Disfo rapidamente il bagaglio ed esco subito a procurarmi un po’ di cibo per la prima colazione. Raggiungo, all’inizio della Chálidon, il minimarket Charoto, dove mi ero rifornito la volta scorsa; mi prendo un po’ di mele verdi, morbidi dolcetti di avena con scaglie di cioccolato fondente e latte vegetale, pure di avena.
Risalgo un attimo in camera a lasciare gli acquisti. Voglio innanzitutto affacciarmi a salutare il porto. Nella piazza della fontana giro a destra, fino alla prima panchina. Contro l’azzurro incupente, il Museo Marittimo e il vicino tratto di case veneziane sono ancora aureolati dal rosa sfatto nel grigio perla in cui si protrae l’agonia del tramonto. I lampioni e le luci dei ristoranti si riflettono sull’acqua gualcita. Piccole boe di vario colore oscillano al breve dondolio delle onde. Non vi sono luminarie di alcun tipo, da nessuna parte: non è come a dicembre.
Passo di fronte alla Cattedrale, per raggiungere la Taverna Argo. Numerose persone si assiepano sul sagrato. Ogni tanto, le campane scoccano singoli rintocchi di diverse tonalità, lenti, nitidi, pausati. Dagli altoparlanti esterni del tempio proviene un vocalizzo solenne e lamentoso, pieno di ghirigori melodici che mi fanno pensare alle geremiadi dei muezzin o ai canti andalusi.
Mi infilo nello zoccolo antico, imboccando la corta traversa del negozio di dischi. I dehors sulla piazzetta. Il budello ai piedi del Bastione Schiavo e la rossa residenza Casa di Portou. Il ristorante Ela, in capo alla via da cui si raggiunge la Sinagoga. Proseguo dritto, rasentando altre attività ristorative. Svolto nel vicolo Skoufon. Subito a destra, una bottega di opere d’arte. In fondo, sui due lati, i tavoli e le sedie grigiazzurre impagliate, proprio come ricordavo.
A servire i clienti, e a invitare a fermarsi – esprimendosi in varie lingue, italiano compreso – i numerosi turisti di passaggio (nel vicolo e in quelli vicini abbondano i cartelli “rooms to rent”), c’è un uomo che non conosco, sulla cinquantina avanzata, segaligno. Scoprirò, in breve, chiamarsi Kostas. Mi fa accomodare a un tavolino addossato a sinistra. Gli dico che venivo regolarmente a mangiare nella taverna due anni e mezzo fa, e gli chiedo di Ghiorgos, mostrandogli una foto che gli avevo scattato all’epoca. “Fra una mezz’ora arriva”, mi risponde. Estraggo le fotocopie della copertina del mio libro e delle pagine in cui parlo del locale, gliele mostro e poi entro a lasciarle accanto alla cassa. Una signora bruna (la sorella di Kostas, apprenderò) sta cucinando. Più tardi compare anche Rula. Il cameriere mi suggerisce le frittelle di zucchini, davvero ottime. Di mia iniziativa scelgo zuppa al pomodoro e polpettine soutsukakia. Un calice di vino rosso “per gli indigeni” accompagna calorosamente i piatti. Al termine, mi vengono offerti, come all’epoca, la torta all’arancio e il raki. Un soriano con una vistosa tacca nell’orecchio destro viene a strofinarsi contro le gambe e a prendere coccole. Qui non ci sono monaci; mi viene in mente che la piccola mutilazione possa essere un modo per contrassegnare i gatti sterilizzati. Ogni tanto, Kostas lo chiama: “Fifì!”.
Ecco Ghiorgos. Gli mostro le fotocopie. Pian piano riesce a estrarmi dalla memoria e a individuarmi. Gli domando se è riuscito, nel frattempo, a imparare il francese. Mi risponde che più o meno. Invece, alla fine del pasto mi si rivolge in italiano e in greco: “Tutto bene? Ola kalá?”. “Ola thaumasia!”, gli rispondo, intendendo che era tutto squisito… ma non so se l’espressione è giusta!
Saluto con un “Arrivederci a domani” e continuo il percorso per ritrovare la città. Raggiungo di nuovo il bastione, oltrepasso le mura, varco il ponticello, costeggio – dall’alto del marciapiede della via Pireos – il fossato in cui stavano allestendo il giardino pubblico (i radi alberelli sono ancora in fasce, a dire il vero), raggiungo la passeggiata litoranea e da lì imbocco la rampa che scende all’area verde. Raccolgo e getto nei bidoni qualche immondizia abbandonata sull’erba. Arrivato in fondo, a ridosso di un canneto e di un fazzoletto di bassi cespi argentei (elicrisi, direi), mi fermo per telefonare a casa.
Risalgo e vado a imboccare la via del Museo di arte bizantina, la Odós Theotokópoulou (intitolata al pittore cretese El Greco). Fotografo l’insegna dell’argenteria Almeida, appuntamento ormai doveroso. Arrivo nella pedonale e sempre gremita Zampeliou. La seguo. Poco prima di raggiungere l’angolo per i bagni pubblici, immortalo due simpatiche gatte tricolori con tigrature di grigio, accucciate su un gradino.
Percorro tutta la Chálidon. Al semaforo, un cartello di senso vietato con la precisazione “EKTÓS 7:00 – 9:00”. Mi viene in mente come suonerebbe qui in Grecia un annuncio che si sente di solito nella stazione di Alessandria: “È in partenza dal binario 8 il treno regionale veloce per Savona. Ferma in tutte le stazioni EKTÓS Sezzadio”.
Torno al porto. Il faro, dorato dall’illuminazione. La moschea. La fila chiassosa dei ristoranti. Ormeggiato, per il lungo, al primo molo, un enorme, aerodinamico panfilo bianco e nero; un turista lo fotografa.
Di traverso in capo al pontile che fronteggia la Neoria, un peschereccio altrettanto imponente e moderno, il Gero Barous.
La taverna Vassilikós e i suoi avventori greci. Al termine del vicolo immediatamente successivo, al posto del locale con l’insegna delle due teste equine ne noto un altro dalla facciata gialla e dal nome ALBI.
Sempre di fronte alla Neoria, un gatto bianco con la coda e la maschera nere.
Salgo la scalinata da cui si arriva alla Odós Markou e vado a coricarmi.
Marco Grassano
Didascalie:
- Dalla finestra della camera (la stessa della prima volta)
- Affacciandosi sul porto
- La taverna Argo
- Il giardino pubblico nel fossato
- Il panfilo