
ALIBI ha intervistato la dottoressa Maria Luisa Catoni, curatrice, insieme al professor Salvatore Settis della mostra La forza del bello. L’arte greca conquista l’Italia, in corso a Palazzo Te a Mantova (fino al prossimo 6 luglio). La recensione dell’esposizione si può leggere qui.
Quali sono state le difficoltà nell’organizzare una mostra tanto ambiziosa?
Le difficoltà sono state di due tipi: una, seconda in ordine cronologico, la più ovvia e aspettata: e cioè la possibilità che alcuni prestiti ci venissero negati. Sapevamo fin dall’inizio che le nostre richieste si indirizzavano su opere importanti e tuttavia abbiamo formulato richieste possibili. In alcuni casi, la nostra etica civile e culturale, ci ha indotto a non chiedere alcuni pezzi, che pure nella mostra sarebbero stati molto bene. Questa prima difficoltà si è risolta in modi molto entusiasmanti: spesso, di fronte ad un primo no di un museo, l’illustrazione particolareggiata del nostro progetto ha mutato l’iniziale rifiuto in un assenso entusiastico. In molti casi, addirittura, i responsabili stessi dei musei prestatori hanno dato suggerimenti, sono entrati nel progetto. Lo stesso è successo con la Direzione Generale per l’Archeologia del Ministero dei Beni Culturali. Naturalmente, in alcuni casi, abbiamo rinunciato a dei pezzi che il museo prestatore non poteva proprio prestare: ma essendo questa una mostra su un’idea, abbiamo potuto sostituire i pezzi in questione con altri altrettanto rappresentativi di ciò che ci premeva illustrare: in questa fase è stato cruciale il lavoro di team, e in particolare il contributo di Lucia Franchi. Il secondo nucleo di difficoltà è stato, durante la fase di elaborazione dell’idea di questa mostra, quello connesso di cercare tutti i modi per comunicare al pubblico sia un’idea storica dei meccanismi delle ricezione dell’arte greca, sia il suo forte impatto emotivo ed estetico. Abbiamo finalizzato a questo, non solo, ovviamente, l’altissima qualità dei pezzi, ma anche la suddivisione delle sezioni e delle sottosezioni, i pannelli, la disposizione dei pezzi; e, naturalmente, il prezioso, intelligente ed emozionante allestimento di Andrea Mandara e la bellissima grafica di Francesca Pavese.
Avete ricevuto qualche “no” alle vostre richieste? e quali sono stati invece i “sì” più “insperati”?
Sì, abbiamo ricevuto alcuni no. I sì insperabili, ma perseguiti alacremente, sono moltissimi: l’Apollo di Piombino, il cosiddetto “Apollino” Milani, il cratere di Vix, il Torso del Belvedere e, ancora, la bellissima Erinni Ludovisi col suo cuscino e lo Spinario capitolino e il cratere di Eufronio…; insomma: si potrebbe andare avanti per un bel po’.
L’organizzazione della mostra ha permesso di scoprire qualcosa di nuovo sui pezzi esposti?
Sì. Da un lato una nuova visione riguarda la “macrostruttura”: e cioè uno sguardo di dettaglio sui meccanismi e i luoghi (talvolta sorprendenti) della ricezione dell’arte e dei valori greci; l’Italia ne emerge come uno snodo nel quale, in periodi diversi della lunga storia narrata in questa mostra, si attuano strategie diverse e multiformi che hanno come esito un continuo e appassionato e “desideroso” ridar voce all’arte greca. Sui singoli pezzi: alcune delle ricomposizioni che abbiamo fatto, ad esempio la testa da Osimo col torso detto “Apollino Milani” – una ricomposizione fisica ma la pertinenza reciproca dei due pezzi era già stata dimostrata – potrà divenire permanente attraverso calchi; grazie ad Angelo Bottini, presentiamo in mostra la ricomposizione del complesso dei marmi da Ascoli Satriano, di cui i pezzi restituiti dal J. Paul Getty Museum fanno parte. E ancora, grazie a Claudio Parisi Presicce, il confronto fra lo Spinario bronzeo capitolino e lo Spinario della Galleria estense di Modena offre l’occasione di fare il punto su questa importante tipologia statuaria.
Quali sono i suoi pezzi preferiti in mostra?
È difficile rispondere a questa domanda. Come in una sorta di frazionamento della personalità, dipende molto da ciò su cui volgo lo sguardo; trovo di immensa bellezza, vigore stilistico e di grande icasticità nel comunicare il valore che intendeva comunicare, il famosissimo kouros del medico Sombrotidas: la stanza in cui si trova, accanto ad altri kouroi e teste di kouros, rende molto bene l’idea che l’arte greca è un’arte la cui funzione è comunicare valori e che lo sguardo, sempre presupposto, è quello dei concittadini: è in questo senso che l’arte greca è un’arte eminentemente politica. E ancora: il cratere di Eufronio, naturalmente; la straordinaria testa colossale di Atena del Vaticano; la sala con i calchi di Baia e le copie dal Doriforo; la straordinaria testa di Terracina; il frammento di fregio del Partenone ; la testa di Efestione in basanite, di Venezia; e la testa di Apoxyomenos di Forth Worth, una di ben tre copie note in bronzo, di un tipo statuario replicato anche nel cosiddetto Atleta della Croazia: sappiamo con certezza che le copie in bronzo erano molte, nell’antichità, ma questo è l’unico caso nel quale, dello stesso tipo, abbiamo ben tre copie in bronzo.
La terza sezione è dedicata al tema della “nostalgia” dell’arte greca. Nel rapporto dei romani con l’arte greca è già possibile rintracciare un sentimento di nostalgia, di consapevolezza di un livello di perfezione ormai irraggiungibile?
Nostalgia, per i romani, non direi. Di nostalgia mi pare si possa parlare quando una frattura forte e irrimediabile sia intervenuta fra due mondi o culture: e uno di quei due mondi, è finito e sconfitto e perso per sempre. Non è neanche più un pericolo, soprattutto culturale. Consapevolezza di un livello di perfezione ormai irraggiungibile: forse, ma in ogni caso senza toni “di perdita” ma semmai di vitale appropriazione. A questo proposito mi piace sempre ricordare le parole di grande orgoglio con le quali un greco, Ateneo di Naucrati, che vive fra II e III secolo d.C., ricorda la varietà di ciò che si può trovare a Roma, in termini di persone, cibi, sculture, marmi, stoffe: il meglio di ogni regione del mondo può trovarsi a Roma. Roma, dice Ateneo, è l’”epitome del mondo”. Molto tempo prima, cioè quando Cicerone scrive le sue lettere per procurarsi statue e copie di statue greche, anche allora, si coglie piuttosto un senso di grande e vitale possibilità di pescare in un grande fiume di cultura, più che un senso di nostalgia. D’altra parte, va anche ricordata la precocità con la quale i greci hanno canonizzato se stessi: Pericle, in occasione del discorso funebre per i caduti nella Guerra contro Sparta durante il primo anno di guerra – non erano passati neanche dieci anni dalla dedica del Partenone – afferma che l’amore del Bello e della sapienza da parte degli ateniesi li elevava a “Scuola della Grecia”. Definirsi “scuola” è una mossa di autocoscienza importante: certo gli intenti propagandistici, autogiustificativi e consolatori di Pericle erano evidenti, essendo lui responsabile di aver trascinato Atene in quella guerra. Ma scegliere di definirsi “scuola della Grecia” rivela la coscienza di aver raggiunto vette altissime.
Oltre alla mostra, lei ha curato anche il catalogo dell’esposizione (edito da Skira). Qual è il “nucleo” di ricerca attorno al quale l’ha organizzato?
Il catalogo cerca di mostrare quanto articolato sia l’uso del termine “bello” nelle diverse società che si susseguirono nella Grecia antica. In particolare, mi preme ricordare che i greci non avevano il concetto di arte. Esistevano tante arti: quella del calzolaio, del medico, del carpentiere. Le arti mimetiche, tuttavia, fra le quali la più importante non era né la pittura né la scultura né l’architettura, ma la mousiké, cioè musica e danza, le arti mimetiche, dicevo, avevano uno statuto particolare. Questo perché avevano un potere straordinario dal punto di vista politico: tramite le arti mimetiche si potevano additare ai cittadini valori positivi o valori negativi: la potenziale pericolosità di sovvertimento politico e sociale o, al contrario, l’ utilità nel costruire un’etica sociale condivisa, facevano di queste arti un punto di interesse importante per legislatori e politici. Costoro, però, in quanto uomini pubblici, erano anch’essi sottoposti a rigorose regole comportamentali: anche l’etichetta e il comportamento in pubblico è un’”arte mimetica” perché comunica e veicola valori ai concittadini. Potremmo dire che nella cultura delle città greche, il fatto stesso di occupare lo spazio pubblico, cioè di tutti i cittadini, comporta grande responsabilità e impone controllo e autocontrollo: nel comportamento, nelle parole, nei movimenti. Nelle città greche, gran parte di ciò che occupava uno spazio pubblico era immediatamente comunicazione di valori: diveniva immediatamente investito del valore più alto, quello politico.
Maria Luisa Catoni insegna Iconografia dell’arte antica all’Università di Pisa. Per le edizioni della Scuola Normale Superiore di Pisa nel 2005 ha pubblicato Schemata. Comunicazione non verbale nella Grecia antica.
“La Forza del Bello. L’arte greca conquista l’Italia”, catalogo della mostra, a cura di M. L. Catoni, 2008, 368 pp. Skira
€ 65,00 (prezzo in mostra € 34,00)