Quarta puntata del reportage di Marco Grassano sul suo soggiorno pasquale a Creta.
Con mia grande sorpresa, stamattina riesco a pelare la mela senza alcuna difficoltà. Che il coltello sia divenuto tagliente di colpo e da solo non è possibile. Ci dev’essere qualche altra spiegazione. Forse il problema stava nel frutto troppo acerbo, non nell’attrezzo smussato.
Passo alla Mediterraneo. Kostas mi informa di aver già iniziato a leggere il mio libro, che gli pare molto interessante. Ne vorrebbe una quindicina di copie, perché ha una serie di clienti e amici cui destinarle. Lo metto allora in contatto con Emanuela Luisari, della casa editrice. Mi avverte che per stasera è prevista pioggia, in coincidenza con la cerimonia di Anástasi, la Resurrezione.
Osservandolo accanto alla figlia, rilevo che nessuno può negare l’evidente parentela, cosa che del resto vale anche per Ester nei miei confronti. A dimostrazione, gli apro una foto su WhatsApp. Dico poi alla ragazzina: “Forza e coraggio!“. Lei non capisce l’italiano. Come avevo fatto ieri con la custode seduta in una delle sale del museo (mora, capelli lisci e lunghi, camicia celestina, pantaloni blu), digito la frase sul cellulare, la faccio tradurre – “Dýnami ke kurághio!” – e gliela mostro. Anche lei sorride e ringrazia.
Mi aggiro nella Chálidon. Permango preda dell’afflizione, non ce la faccio proprio a “riscaldare con un sorriso nudo il mio infinito isolamento” (l’immagine l’ho trovata ieri sera in Ritsos).
La Galleria d’Arte è chiusa, ma offre una mostra assai allettante, per chi, come me, ha sviluppato la propria capacità percettiva anche grazie agli scatti di Luigi Ghirri, di Vittore Fossati e del povero Andrea Repetto: “Storie di Paesaggio – sguardi della fotografia greca contemporanea“. Verrò a visitarla appena possibile.

Mi serve un barbiere. La ricerca sul telefono ne individua uno poco distante, da qualche parte nei dintorni del giardino coi busti dei truci patrioti. Vado lì e domando; mi indicano un breve vialetto che punta a ovest, dicendomi: “Nella via dietro“. Un bar, un verduriere, un laboratorio di argenteria, un altro bar.
Arrivato alla trasversale, osservo una per una le insegne. Beauty Store. No, non può essere questo, anche se sto per entrare a chiedere. Ma ecco, nella vetrina a lato, due uomini che lavorano di forbici e di rasoio attorno alle inconfondibili poltrone. La scritta sporgente Kurío–Kommotírio dovrebbe appunto indicare il Barbiere-Parrucchiere.
Entro e mi siedo in attesa del mio turno, mentre vengono serviti un greco e il suo bambino in età prescolare, e quindi un altro straniero. Il meno giovane dei due artigiani mi fa accomodare alla postazione di sinistra. Gli rivolgo la frase che mi ero preparato: “Ena chiliostó“, un millimetro. Mi tosa, e in più mi sistema le sopracciglia. “Ten euro” dice, alla fine, quando metto mano al portafoglio.
Pranzo alla Argo. Tra i clienti, uno somigliante al Consigliere Delegato per la Caccia e la Pesca della nostra Provincia. Umoristicamente, lo ritraggo. Si è levato un venticello; Kostas fissa le tovaglie di carta dalle decorazioni marinaresche con ampi elastici tondi che le mantengono aderenti al perimetro dei tavolini.
Voglio vedere il Mercato in ristrutturazione. Vado a imboccare la Skrydlof, densa di negozi di pelletteria e di altri generi, come ricordavo. Sento miagolare in alto un micio, forse in difficoltà. Non trovando dov’è, lo chiamo. La commessa o proprietaria di una delle botteghe di fronte – giovane, mora e tracagnotta – me lo indica sopra uno dei tendaggi aggettanti verso il centro via, e mi dice in italiano: “Come è salito, troverà il modo per scendere!“.
Nel primo slargo a destra, il Music store che pure rammentavo. Mi aggiro fra gli scaffali dei CD. Ritrovo quello di padre e figlio Kunalis, del cui concerto avevo notato il manifesto ad Aghios Nikólaos (e stavolta lo prendo), e soprattutto snido un’autentica chicca: quindici poesie di Kavafis messe in musica da Alexandros Karozas e interpretate da Ghiorgos Dalaras con l’Orchestra da Camera e l’Accademia di Canto di Vienna.
Ecco la struttura mercatale, completamente sventrata, ridotta ai soli muri esterni scrostati in modo da riportarne alla luce i laterizi di pietra. Ho la vaga sensazione che le opere procedano a estremo rilento, e che dureranno ancora parecchio.

Arrivo alla Daskaloghianni e la seguo fino alla Neória, vicino al cui angolo un gatto biancorosso sta mangiando dei croccantini. Alla Taverna Vassilikós si aggira un micio praticamente gemello del precedente.
Nella piazza della fontana mi arresto di fronte a una coppia di musicisti, seduti attorno a un piccolo impianto di amplificazione: un uomo con un ciuffo di capelli brizzolati suona il sandouri e canta, mentre una ragazza più giovane scandisce il ritmo, percuotendo legnetti incrociati, e regge il controcanto.

Il vento che arriva dal mare si è fatto deciso e ora spinge verso di noi gli zampilli d’acqua, facendoli stramazzare sui lastrici.
Mentre ascolto, si avvicina incuriosita e si dispone in cerchio una compagnia di italiani dai vari accenti. Spiego a una di loro che quello è lo strumento di Zorba il Greco nel romanzo. La donna, a sua volta, mi informa trattarsi di un gruppo di ciechi e ipovedenti accompagnati in viaggio dall’associazione a livello nazionale cui lei appartiene.
Qualcuno degli organizzatori confabula con l’artista di strada; poi una giovane e un anziano vengono fatti accomodare a turno sullo sgabello, mentre il musicista guida le loro mani a tentare una successione di note. I due sorridono, mostrando una gioia quasi infantile che mi serra la gola. Commento con la mia interlocutrice che quanto loro stanno facendo è davvero una gran cosa. Il suonatore attacca Bella ciao e l’intera compagine di connazionali la canta in coro, facendomi ancora commuovere. Oggi ho la lacrima facile.
Al termine, ringrazio l’uomo per l’espressione di solidarietà nella resistenza e gli stringo la mano; lui risponde: “La lotta per la libertà non ha confini; io sono per la rivoluzione mondiale” (nei giorni successivi lo vedrò esibirsi sul sagrato; si chiama Marios Papadeas e tiene corsi per chi vuole imparare il sandouri – o “salterio”, come traduce Nicola Crocetti).
Salgo allo spiazzo del Rosa Nera, pochi metri sotto le mie finestre, per osservare dall’alto il borgo. Verso sud, nubi spinte dal vento si stanno accumulando e infoscando in cima alle montagne, che fanno da barriera e le trattengono.

Gli spazi esterni della Argo sono tutti pieni, quindi mi accomodo al tavolo che ero solito occupare nel dicembre 2021. Sulla parete, due foto – che all’epoca non c’erano – raffigurano preteriti gruppi musicali, con il medesimo fisarmonicista. Quest’ultimo mi fa pensare, sorridendo, a un collega che, fosse di qui, si chiamerebbe Károlos Tycherós. I piatti che scelgo (una spessa purea di fave e una moussakà) non sono tra i più leggeri, ma non c’è fretta, poiché i riti avranno inizio solo dopo le 23.
Inizia a gocciolare e non ho con me l’ombrello. Meno male che stasera si può entrare in chiesa; per la cerimonia di Epitaphios [vedi nota], invece, ho potuto appurare – in Rete – che erano accolti nel tempio solo gli officianti, i coristi e le autorità, mentre i fedeli entravano, sostavano di fronte al baldacchino coperto di fiori (a farsi il triplice segno di croce e a baciare i Vangeli, rilegati in argento, e il drappo raffigurante Cristo morto) e quindi tornavano fuori. L’andirivieni, in effetti, lo avevo notato…
Sono le 22.40. Seguendo l’esempio degli altri, prendo una candela (bianca, stavolta) e mi dispongo, in piedi, tra le colonne della navata di sinistra; quella centrale è delimitata da cordoni, in modo da mantenerla sgombra.
Trascorre una mezz’oretta, accompagnata dal lamentio degli altoparlanti. Poi il Metropolita, indossando un nero berretto cilindrico caudato e un mantello rosso ad ampi orli d’oro, esce da dietro l’iconostasi, va ad appoggiarsi allo scanno affisso alla prima colonna di destra, inforca gli occhiali e, premettendo un Amín (la eta in greco moderno si pronuncia “i”), inizia a leggere, da una sorta di messale rosso, una litania costellata di Aghios e di Kyrie eleison.
Nello spazio rimasto libero al centro vengono man mano fatti accomodare ufficiali in alta uniforme (accompagnati dalle rispettive famiglie: mogli bionde e brune, figli più o meno grandi…) e un tizio ancor giovane in elegante abito blu. Non vedo il sindaco, probabilmente è impegnato altrove.
Davanti a un leggio semplice, sulla destra dell’iconostasi, tre uomini in tunica nera declamano con “voce conventuale, profonda e melodrammatica” (Dino Campana è l’altro autore che mi sono portato in valigia) frasi per me oscure. Attorno al grande, molteplice leggio di legno, rotante, posto specularmente sul lato sinistro, i sei uomini del coro, pure tunicati, alternano alla recita dei colleghi inni bizantini dei quali colgo solo qualche rara parola (neánides, “giovani”; sotiru, “del salvatore”; stavrós, “croce”; Thanatu, “della Morte”), eseguiti parte all’unisono, parte alla maniera vibrata e sovrapposta dei tenores sardi. Ora anche gli altri tre si mettono a cantare, in combinazione amebea con questi; viene ripetuta spesso la parola sotiría, salvezza.
Dopo essere rimasto seduto per un certo tempo, Sua Eminenza Reverendissima si avvicina all’iconostasi, si segna e bacia diverse immagini d’argento. Quindi, impugnando tre candele incrociate, si volta a benedire l’assemblea dei fedeli. Noto di fronte a me, accanto al primo pilastro, una ragazza assai graziosa, tutta vestita di nero, in camicetta e gonna a metà coscia, con la frangia e i capelli lunghi, lisci, mori, scriminati sulla sommità del capo e tenuti dietro le orecchie, che partecipa attivamente alla liturgia praticando inchini e segni di croce. Di fronte a lei, la probabile madre o piuttosto nonna, che nell’atteggiamento e nell’abbigliamento mi ricorda una mia vecchia, fastidiosa zia scomparsa. Poi, mentre gli inni continuano ininterrotti, i religiosi si portano nel presbiterio, per un cambio di paramenti o per marcare uno stacco nella celebrazione. Vi rimangono, infatti, molto a lungo.
Ecco che i tre uomini di destra riprendono la declamazione iniziale. Le luci vengono via via spente. Il Metropolita riappare dalla “Porta Santa”, in paramenti dorati e reggendo, a braccia in avanti, due terzetti (sempre la Santa Trinità…) di candele accese, un po’ come nella scena più famosa del dramma Natale in casa Cupiello. Da esse attingono la fiamma, progressivamente, gli altri sacerdoti e i fedeli, finché tutti dispongono della loro luce. Lo faccio anch’io. In parallelo all’operazione, nel canto vengono ripetute più volte le parole fos e fotós– luce variamente declinata, appunto. E poi Christe sotir stin Uraní, O Cristo salvatore in Cielo…
Sono circa le 23.50. I celebranti si avviano verso l’uscita. Accanto a me, un ragazzo francese biondiccio e dagli occhi verdazzurri, somigliante a Truman Capote adulto, avanza, tallonato dalla sua ragazza, per filmare col telefonino.

Fuori è nel frattempo piovuto: la pavimentazione è lucida. Mentre il Metropolita continua a salmodiare da solista (Kyrie eleison… Sophía tu Aghíu Evanghelíu…), il plotone di religiosi sale su un palchetto allestito a poca distanza dal portale; davanti vanno a posizionarsi le autorità, con e senza uniforme. Il sagrato è pieno. Tutti mantengono la propria candela accesa.
Mezzanotte. Di colpo, il prelato attacca un cantico nuovo, Christós anesti ek necron, Thanaton – Cristo è risorto dai morti, dalla Morte – e contemporaneamente le campane iniziano a pulsare acute, fitte, rapide e festose.
Dopo canti prolungati, gli officianti scendono; seguendoli, tutti rientriamo in chiesa, sempre con le candele accese, e ci avviciniamo, uno alla volta, a baciare, chinandoci, l’icona della Resurrezione, che nel frattempo è stata esposta, su un cavalletto, a ridosso dell’iconostasi.

La cerimonia è terminata. Mentre mi avvio per tornare a casa, un capannello di adolescenti dall’aspetto etnico sta danzando, a un ritmo vivace, sul selciato luccicante della Chálidon.
Marco Grassano
Quarta puntata. Segue
Nota: A questo link si può scoprire molto sull’Epitaphios di Ghiannis Ritsos, musicato da Mikis Theodorakis ed eseguito da Manos Hadzidakis e Nana Mouskouri.
Didascalie:
- La locandina della mostra fotografica
- Il Mercato Coperto in ristrutturazione
- Il suonatore di sandouri e la sua compagna
- Le nubi si accumulano a sud
- Cristo è risorto!
- Prima di baciare l’icona della Resurrezione