Quinta puntata del reportage di Marco Grassano sul suo soggiorno pasquale a Creta.
Stamane, la Chálidon è tutta una saracinesca calata, come nella canzone Gli impermeabili, di Paolo Conte: “Serrande abbassate, pioggia sulle insegne delle notti andate…”. Adesso non piove, ma la domenica – a maggior ragione se è Pasqua – scarseggiano le attività aperte, soprattutto caffè e ristoranti. Non sarà facile trovare un locale per il pranzo e la cena…
Intanto, torno in Cattedrale. Alle 11 inizia una funzione con officianti e coro. Di nuovo vengono variamente ripresi, in un profluvio di Doxa (Gloria), i Christós anesti e i Kyrie eleison.
Tre diversi religiosi, appoggiati agli scanni, leggono in francese e in inglese, e salmodiano in greco, il brano del Vangelo di Giovanni sulla Resurrezione:
“Ora, quando fu sera, in quell’istesso giorno [ch’era] il primo della settimana; ed essendo le porte [del luogo], ove erano raunati i discepoli, serrate per tema de’ Giudei, Gesù venne, e si presentò [quivi] in mezzo, e disse loro: Pace a voi! E detto questo, mostrò loro le sue mani, ed il costato. I discepoli adunque, veduto il Signore, si rallegrarono. E Gesù di nuovo disse loro: Pace a voi! Come il Padre mi ha mandato, così vi mando io. E detto questo, soffiò [loro nel viso;] e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo. A cui voi avrete rimessi i peccati saran rimessi, ed a cui li avrete ritenuti saran ritenuti. Or Toma, detto Didimo, l’un de’ dodici, non era con loro, quando Gesù venne. Gli altri discepoli adunque gli dissero: Noi abbiam veduto il Signore. Ma egli disse loro: Se io non veggo nelle sue mani il segnal de’ chiodi, e se non metto il dito nel segnal de’ chiodi, e la mano nel suo costato, io non [lo] crederò. Ed otto giorni appresso, i discepoli eran di nuovo dentro [la casa], e Toma [era] con loro. E Gesù venne, essendo le porte serrate, e si presentò [quivi] in mezzo, e disse: Pace a voi! Poi disse a Toma: Porgi qua il dito, e vedi le mie mani; porgi anche la mano, e mettila nel mio costato; e non sii incredulo, anzi credente. E Toma rispose, e gli disse: Signor mio, e Iddio mio! Gesù gli disse: Perciocché tu hai veduto, Toma, tu hai creduto; beati coloro che non hanno veduto, ed hanno creduto.” [Nota 1]
Fuori, le campane si agitano frenetiche; all’interno, tintinnano, gioiosamente, tondi sonagli e fumanti turiboli, mentre uno dei sacerdoti percorre rapido le navate reggendo un paniere colmo di petali bianchi e rossi, che getta in aria a piene mani, come in un’usanza classica [2]; i fedeli abbassano il capo a riceverli, quindi li raccolgono da terra.
Poi ci mettiamo in fila per baciare l’icona di stanotte. Incrociandosi, ci si scambia, con un sorriso e un accenno di inchino, le battute: “Christós anesti!” e “Chronia pollá!”.
Chi vuole, può prelevare da un cesto vicino al primo pilastro, impacchettate in scatoline rosse recanti scritte e simboli beneaugurali, le uova tinte, e da un altro corbello, di fianco ai mazzi di candele, i cantucci di pane consacrato (se ne prendono tre, o multipli di tre). I devoti si portano a casa anche la fiamma attinta dai ceri dell’iconostasi: avvalendosi di una candela, oppure, per proteggerla dall’aria, in un lumino chiuso. Io, però, non ho una casa cui portarla. Mi limito ad accendere le mie tre candele e a lasciarle nell’ingresso, come ho fatto venerdì.
In strada, le persone che si conoscono si rivolgono reciproci, fervidi “Kalí anástasi!”. Tutti paiono diretti da qualche parte, per festeggiare assieme a qualcuno; io solo non ho dove andare, né con chi. Ho sempre pensato che Pasqua sia la ricorrenza più bella per gli Ortodossi, credenti o no. Questione di cultura, non di fede. Ricordo un’analoga atmosfera di letizia collettiva la domenica mattina a Malta: ma laggiù ero con mia figlia, che qui invece continua a mancarmi tanto. La tristezza mi vince di nuovo.
Andando in camera a lasciare le vivande cultuali, noto, davanti alla prima abitazione del vicolo, una piccola rosa rossa e una gialla, appena sbocciate in un vaso. Percorro il porto veneziano, ma trovo chiuso il Vassilikós, l’intera via del Kafeníon Ta dyo loux (dove avevamo consumato il primo pasto in città), i locali sul retro della Neória.
In fondo alla piazza della fontana, una coda di stranieri attende davanti alla gelateria Let’s spoon. A pochi metri verso la Chálidon, un negozietto della catena balcanica e mediorientale Chillbox mi attira di più, perché non presenta ressa.
Scelgo una coppa coi gusti cioccolato nero, cocco e stracciatella, poi mi appollaio ad assaporarla sull’alto seggiolino metallico di fianco all’ingresso. Un improvviso buffo di vento mi scaglia a terra il libretto d’appunti e la matita, poggiati sul tavolino. Li recupero con un’imprecazione. Per un istante, esamino l’idea di ripetere il pellegrinaggio theodorakiano a Galatás, però oggi non me la sento proprio. Magari domani mattina, vedremo. Ripiego sulla spiaggia di Nea Chora, assai meno faticosa da raggiungere.
Costeggio l’articolato litorale, rasentando: la fortezza, il parcheggio, la piazzetta con l’angosciante monumento alle vittime dei naufragi (almeno, così lo interpreto io), il giardino di tamerici prolungato nella successiva allea, la baia artificiale, le piscine (la scritta Gymnastírio evoca invece una palestra), la darsena che fa seguito alla curva. Da qui, dopo un’altra svolta, compensativa della precedente, proseguo, in fregio all’arenile, su una pista fatta dapprima di assicelle, poi di ruvido calcestruzzo – finché il camminamento termina contro un decrepito muretto di cinta.
Scendo sulla spiaggia. Due cabine doccia bianche e azzurre. Qualche persona stesa su asciugamani o sulle sdraio. Nessuno in acqua. Poco più in là, a ridosso dei raccoglitori per i rifiuti, un gonfio, succulento cuscino fiorito di Mesembriantemo rustico (Delosperma cooperi). Insinuatosi spontaneamente nella fessura tra il percorso di legno e il marciapiedi, un cespetto pastellato di Violaciocca marina (Matthiola tricuspidata). [3]
Torno in centro. Mi sento sempre più pervaso dalla malinconia. Per fortuna, l’amica Roberta, impegnata a sostenere la figlia Marghe nella preparazione di una verifica, mi distrae con qualche quesito filosofico – di matrice aristotelica – su uovo e gallina, forma e sostanza, Primo Motore Immobile… Contraccambio con un interrogativo rinvenuto in Ritsos (“L’inesistenza esiste?”– domanda degna di Gigi Marzullo!) e vi aggiungo il paradosso del cretese che affermava perentorio: “Tutti i cretesi sono bugiardi”. Dunque, era bugiardo anche lui. Ma se mentiva, allora non era vero che erano bugiardi. Ma se non erano bugiardi, allora neppure lui mentiva affermando che lo fossero. E quindi, se lo erano, anche lui mentiva…
Sperando di tirarmi un po’ su, decido di farmi un ouzo al bar, nella campata della “Neória dei Mori” più vicina alla diga frangiflutti. Non c’ero mai stato. Lo spazio interno è davvero molto ampio (da una parete di pietra all’altra) e alto (dalla pavimentazione di cemento liscio alle capriate): un deposito merci di quelli grandi. Mi accomodo su un sedile di cuoio, a uno dei tavoli di legno massiccio che si trovano verso metà lunghezza, e ordino. Mi viene portata dapprima una bottiglia di acqua gelida, poi il liquore on the rocks, ossia coi cubetti di ghiaccio. Diluirlo è – altra immagine rubata a Ritsos – come spandere incenso: sia visivamente, per la nuvoletta bianca che si allarga, sia olfattivamente, per l’aroma di anice che si sprigiona.
Continuo a scambiare messaggi con Roberta (una vera àncora, per me, in questo frangente, poiché nella vita “abbiamo calcato gli stessi appigli”), commentando le sue ultime letture (Camilo José Cela, Ramón del Valle Inclán), ciò che sta scrivendo (il racconto per Ormea), le sue possibili parentele letterarie (Gadda, Busi e la “scuola lombarda” in generale).
L’effetto dell’ouzo si rivela più potente del previsto, o forse è anche conseguenza del pranzo troppo leggero: quando mi alzo per andare ai servizi, in fondo al locale, mi sento malfermo sulle gambe. Quantomeno, mi sono scordato di me stesso for a while, come canterebbe Leonard Cohen.
Passando di fronte all’Arsenale veneziano, noto una serie di gatti bardi, biancorossi e mascherati, in sosta ruffianesca lungo il marciapiede per avere cibo.
Una “tricolorina” prevalentemente nera sta accucciata sul terreno gerbido attorno alle rovine della Canevaro. Da una delle ultime case della via, lungo la fila di sinistra, esce un uomo in polo azzurra e jeans, con una paglietta in testa, un bouzouki in spalla e un carrellino al traino. Si ferma a sud della fontana, monta lo sgabello e l’amplificatore, inizia a eseguire melodie locali. Lo ascolto per qualche brano. Nel dare il mio obolo, gli faccio osservare che la sua voce e il suo stile hanno qualcosa di Stamatis Kókotas. “Yes, sometimes”, replica con tono concessivo, ma in realtà soddisfatto del complimento.
Trovo una taverna aperta, subito prima dell’angolo da cui ha inizio il vicolo Skoufon – dunque, a due passi dalla Argo. Dentro, la conformazione mi ricorda quella del ristorante greco in cui Ester e io avevamo cenato a Delft.
Con la bella stagione, i tavolini, protetti da gazebo, sono collocati più in là, a ridosso del Bastione Schiavo. Vi prendo posto. Attorno a me solo stranieri. Estraggo il mio libro e il taccuino e li poso sul tavolo, rischiarato da una tozza candela nascosta in un boccaletto di vetro opaco fucsia e bianco. Ordino all’indaffarata cameriera dolmadakia con salsa tzatziki, cui abbino una sorta di caponata a pezzi grossi sormontata da quattro tocchetti di feta; sul menù, contrassegna il piatto la tranquillizzante dicitura Vegetarian.
Mi sento rasserenato. Prima di ritirarmi in camera a leggere e a dormire, passeggio a lungo. Osservo, all’inizio del budello tra la piazza della fontana e la moschea, il negozio di specialità locali Testa Leone, e sorrido pensando alla nostra gatta.
Marco Grassano
Quinta puntata. Segue
Note:
[1] Cito nella storica versione di Giovanni Diodati, per il suo sapore arcaico.
[2] Cfr. Eneide, VI, 883: Manibus date lilia plenis, purpureos spargam flores – Offrite gigli a piene mani, io spargerò fiori purpurei…
[3] Grazie alla collega Paola per la consulenza botanica. Mi viene in mente che, in greco moderno, vótana sono le erbette…
Didascalie:
- L’icona della Resurrezione da baciare
- Le uova beneaugurali
- La spiaggia di Nea Chora
- La “Neòria dei Mori”
- L’interno del bar
- La cena