Torna in libreria Narcocapitalismo (Vita e psicopolitica nell’era dell’anestesia) di Laurent de Sutter per i tipi di Ombre Corte, uscito per la prima volta in italiano nel 2018.
Quello di de Sutter, filosofo belga autore fra l’altro di libri come Metafisica della puttana o Teoria del kamikaze, è un tentativo di leggere il capitalismo odierno alla luce di una condizione a esso necessaria: una generale anestetizzazione degli individui favorita da farmaci e sostanze stupefacenti.
Per de Sutter si tratta di mostrare quanto la sopravvivenza del primo dipenda dall’uso fuori controllo delle seconde – purché ci si metta d’accordo sul significato della trita locuzione che le definisce: non dovrebbero allarmarci quali viatici di chissà quali paradisi artificiali invisi al buon borghese d’antan, ma al contrario quanto congerie di dispositivi chimici necessari a una forma di controllo generalizzato che tenga in moto la macchina produttiva.

Noi crediamo – e abbiamo bisogno di – combattere l’angoscia della performance attraverso sonniferi e antidepressivi, che la fanno da padroni del mercato mondiale ma innanzitutto di noi stessi. “La nostra è un’epoca perduta, perché la sua lotta è mettere sotto tutela le nostre emozioni, i nostri sentimenti, le nostre eccitazioni – chiuderle all’interno di una camicia di forza chimica che riduce le nostre paure al silenzio.” Così scrive il filosofo, convinto che il controllo della paura sia duplice: autoindotto dall’interno e gestito dal capitale per impedire che essa si trasformi in rabbia e reazione collettiva.
Ripercorrendo alcune tappe del processo, de Sutter ricorda che quando il 12 novembre 1846 venne depositato negli Usa un brevetto per “il miglioramento delle operazioni chirurgiche” e venne utilizzato l’etere solforico per via inalatoria, la parola anestesia ancora non esisteva, ma a suo avviso l’operazione scriveva l’incipit di una storia della narcosi senza la quale non è possibile intendere il capitalismo contemporaneo.
Si trattava di controllare il tipo del maniaco-depressivo, destinato a un’esistenza tempestosa nella quale a stati malinconici si alternano stati maniacali, quelli che conducono al movimento e all’eccitazione (il contrario dell’anestesia). Fu lo psichiatra Emil Kraepelin a intuire il potenziale “sovversivo” di una vitalità fuori controllo, e l’idrato di cloralio fu il farmaco che poi in America venne usato contro i più “recalcitranti”, per calmarli, lasciare intatta la depressione ed espungere l’eccitazione ossia il possibile punto di svolta di un volo dell’essere fuori da sé stesso e varcarne i limiti. Lo stesso psichiatra avrebbe ispirato un secolo dopo la psicopolitica del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM III) del 1980, così che “Il sistema di classificazione dei disturbi mentali sarebbe diventato uno strumento di gestione delle popolazioni”.
Ben più pesante anni dopo fu l’azione della clorpromazina che portava l’individuo verso una “rimozione del rapporto con le proprie sensazioni, la cui percezione gli era negata”. La molecola non curava ma conduceva il soggetto in uno stato di passiva indifferenza, “un grado zero della vita degli affetti” che teneva a bada il pericolo sociale dell’eccitazione (per il mondo psichiatrico il problema era assicurare la “stabilità”).
Persino la notte, ad avviso di de Sutter, andava sottratta alla franchigia dell’imponderabile – occorreva curare l’insonnia per garantire l’efficienza della forza lavoro. Nella stessa chiave de Sutter legge il fatto che nel Seicento a Parigi si preoccuparono di illuminare la città per meglio controllare la popolazione, o che più tardi si sottoponessero a un controllo governativo i locali notturni, possibili covi di dropout ma anche di nuove organizzazioni di lavoratori.
Poi arrivò Freud, che provò la cocaina su sé stesso e le consegnò una fama clamorosa. Essa sarebbe diventata un carburante del cervello, essenziale al capitalismo. Oggi, un secolo dopo, parrebbe ancor più vero l’assunto che l’efficienza anestetizzante della cocaina serva al capitalismo perché i suoi pazienti (le sue vittime?) continuino a lavorare senza posa.
De Sutter ritiene che “Non solo la finanza internazionale è inseparabile dal commercio della droga, ma tutto si svolge come se fossero la stessa cosa, come se fosse impossibile distinguere le due cose”, ed è evidente il richiamo qui al lavoro di Roberto Saviano. Se ne conclude che “Ogni capitalismo è, necessariamente, un narcocapitalismo – un capitalismo in tutto e per tutto narcotico, la cui particolare eccitabilità non è che il rovescio maniacale della depressione, che non cessa di originare, pur presentandosi come suo rimedio”.
L’efficienza della cocaina non va confusa con l’eccitazione, il cui stato intensivo l’Occidente ha cercato di tenere a bada perché non si traducesse in attività politica. Salvifica sarebbe solo “la politica dell’eccitazione ossia del disessere [désêtre]”, scrive de Sutter, la politica dell’amok, di ciò che sfugge al controllo che costringe i soggetti nei limiti dell’essere.
L’eccitazione è contagiosa ed è ancora per questo che secondo de Sutter quando l’inventore della psicoanalisi scrisse che ciò che “era in gioco nelle folle, non era nient’altro che l’inaspettata ricomparsa dell’‘orda originaria’, ossia lo stato primitivo dell’essere umano in gruppo” (una forma collettiva del depresso nella fase maniacale), suggeriva anche quanto fosse necessario porvi rimedio.
Per de Sutter oggi anestetizzare è così importante che il problema degli effetti collaterali è totalmente eluso, persino quando con alcuni farmaci ci troviamo davanti a una “completa scomparsa del desiderio sessuale”. Che per de Sutter significa spegnere il “motore dell’essere” – non a caso la clorpromazina continua a figurare nell’elenco dei “farmaci essenziali dell’OMS”.
Ora, nella lunga intervista di Enrico Petrilli che chiude il libro (assente nella prima edizione, interessantissima perché aiuta a inquadrare la prospettiva di de Sutter, che è quella di non averne di fisse e immutabili) definisce la sua ricerca come un “progetto in fase sperimentale” – la precisazione mi pare utile soprattutto pensando ai rischi di aporie come quelle che de Sutter rimprovera agli approcci pomposi di sistemi astratti e concettuali che condannano genericamente il potere, l’oppressione, la finanza.
La sua vuole essere una benvenuta ontologia materialista, attenta alle reali condizioni – oggetti, fatti – di ciò che ci circonda. Sostiene che sia stato Jean Baudrillard ad avergli fatto comprendere che “la teoria non serve a spiegare il mondo, ma a peggiorarlo”.
E prosegue: “Ho sempre interpretato questa frase come un richiamo all’esagerazione, a concetti potenti, ad affermazioni pretenziose e così via, non perché siano più ‘veri’, ma perché sono in grado di produrre qualcosa che gli approcci sfumati, equilibrati e prudenti non farebbero”.
Nello specifico diremmo dunque che se tutta la storia della narcosi è ascrivibile a una cosmica distrazione dalle questioni capitali perché ci spinge a “concentrarci sul nostro presunto essere e renderlo così importante ai nostri occhi da farci credere di dipendere da esso”, laddove dovremmo tenere per “l’eccitazione, come principio d’irrequietezza dell’essere” (che ci avvicina alla libertà), ci troviamo comunque davanti a una cornice da cui leggere il mondo – una sola.
Per quanto interessante sia il lavoro di de Sutter, non è detto che (tutto) funzioni. Un po’ di gratitudine a chi quasi due secoli ha creduto di doverci risparmiare l’orrido dolore di una camera operatoria io la conserverei.
Michele Lupo
Laurent de Sutter
Narcocapitalismo
Vita e psicopolitica nell’era dell’anestesia
Traduzione di Gianfranco Morosato
Ombre Corte
Collana Cartografie
2023, 106 pagine
12 €