Terza parte del reportage di Marco Grassano sull’Olanda.
Andiamo a riprendere le biciclette e ci portiamo lentamente – facendo un ampio giro per vedere un altro pezzo di città, coi suoi ponti e i suoi canali costeggiati da case galleggianti, e per scattare fotografie – verso l’area dei musei.
Abbiamo prenotato la visita al Museo di Van Gogh per le 18. Ci fermiamo a ridosso di un ponte, appoggiando le bici al muro che sovrasta il canale, poi riprendiamo il nostro itinerario assolutamente improvvisato. Verso metà pomeriggio, arrivati nel quartiere dei musei, leghiamo le biciclette e andiamo a berci una bella bottiglia di acqua minerale, costosa ma straordinariamente leggera, al Blushing Holland Healthy Koffie & Food, prendendo posto a un tavolino sotto ampi ombrelloni dove siedono turisti di varie età e nazionalità.
Cerchiamo una libreria, che internet ci segnala non molto distante, dall’altro lato del Vondelpark. Lungo il percorso, oltre un ponte che scavalca il parco, un segnale abbattuto, l’Uptown Meat Club (a chi caspita può essere venuto in mente di istituire un Circolo della Carne?) e, a ridosso, le Delicacies of Sea Food.
Nella via alberata in cui arriviamo, che mi ricorda certi angoli del centro di Porto, invece del negozio troviamo le impalcature di lavori di ristrutturazione. Facciamo allora un giro nel parco, dal primo tratto, dove coppiette sono sedute sui prati, alla zona degli stagni: un grande salice piangente vicino al ponticello giapponese, con la ringhiera a tubi blu, sul quale passa ripetutamente una ragazza dai lunghi capelli mori che forse vuol farsi un selfie; un chiosco liberty per bande od orchestrine; le tribune di un teatro all’aperto; un gioco di zampilli in mezzo a un laghetto; anatidi che nuotano impettiti; due grandi oche grigie in piedi sulla riva; persone che siedono su prati e panchine, passeggiano, fanno jogging o filano rapide in bicicletta. Area molto vissuta, direi quasi affollata.
Usciamo da uno dei cancelli e, seguendo qualche tratto di via, arriviamo al museo ultramoderno. Disponendo già dei biglietti, la fila agli sportelli di ingresso è veloce. Ispezioniamo una complessa installazione multimediale (mi rimane impressa una stanza piena di girasoli di vetro), depositiamo lo zaino e iniziamo la visita all’enorme spazio, labirintico e plurilivellare.
L’emozione di fronte alle opere del Maestro e al suo flusso di colori è fortissima, quasi stordente. Alcune tele e disegni erano esposti anche alla mostra di Vicenza, visitata nelle vacanze di Natale, ma l’incantesimo si rinnova intatto. Assai ben costruiti i percorsi tematico-cronologici; opportuni gli accostamenti con le opere di altri artisti “amici”; precisi ed esaurienti i pannelli esplicativi bilingui; efficaci le ambientazioni coi pezzi di mobilio recuperati; toccanti gli attrezzi del pittore, compresa la tavolozza, che osservo con venerazione.
Mi soffermo particolarmente, nel salone finale, su due pezzi forti come Campo di grano con volo di corvi e Il raccolto, che alla scuola media avevo tentato di riprodurre (olio su compensato) per le lezioni di Disegno. Visti dal vivo, nella loro ruvida, densa materialità, surclassano qualsiasi riproduzione a stampa, per quanto accurata.
Divertenti invece la libreria alla fine dell’esposizione e, ancor di più, la boutique del pianterreno, vicina al guardaroba e deposito delle borse. L’enorme cofanetto coi tomi delle lettere complete, credo in edizione anastatica, impossibile da trasportare per chiunque viaggi in aereo; l’edizione Gallimard delle Lettres à Theo, che ho anch’io, e quella in italiano, che pure posseggo; una raccolta di epistole a vari destinatari pubblicata da Actes Sud (non vi sono però i corrispondenti volumi italiani usciti presso Einaudi e Donzelli); testi, di critica e di storia, sul pittore; DVD in varie lingue, persino in giapponese.
Ritirato lo zaino, troviamo davvero kitsch gli oggetti esposti negli scaffali e banchi del negozio, in particolare un bambolotto o burattino di lana con le fattezze del pittore, cappottini per cani con la riproduzione del quadro dei mandorli fioriti stagliantisi contro il cielo, come pure ombrelli, astucci, agendine, borsette, maglie e cappellini con la stessa immagine, per non parlare dei monili… mi fermo qui, per compassione verso l’artista.
Recuperiamo le biciclette e ci avviamo verso l’albergo seguendo i dettami del navigatore, che in Olanda legge anche la fitta rete delle piste ciclabili. Attraversiamo e quindi ci allontaniamo progressivamente dalla cerchia dei canali, che però non terminano mai del tutto. Constatiamo, comunque, la presenza costante di filari di alberi e aree verdi: non un solo rione ne è privo.
Ci portiamo a costeggiare il Westpark e poi un lungo tratto di pista podistica, su un livello inferiore, che cinge un’area di verde fitto, con in mezzo piccole costruzioni che mi fanno pensare alle baracche sui nostri fiumi, ma decisamente più basse e discrete. Alla fine sfociamo nei pressi della stazione di Sloterdijk e in pochi minuti siamo all’albergo.
Ci riposiamo e ci laviamo, poi prenotiamo la cena – per le otto e un quarto – al vicino Wissenkerke Stoterdijk, che avevamo notato arrivando, perché, spossati dalla levataccia e dall’intensa perlustrazione, non ci sentiamo di fare altra strada.
Scendiamo i gradini per raggiungere il cortile del palazzo-albergo in vetro e cemento dove il locale ha sede. Ci accoglie il proprietario, che mi ricorda vagamente un noto medico e analista di Sale, ma decisamente più giovane. Ci fa accomodare a uno dei tavolini di bambù, liberandolo dal cavo di sicurezza che lo lega alle poltroncine per impedirne il furto. In alto, la scritta al neon Eaten & Drinken, molto simile all’inglese.
Di nuovo, mi stupisco per la gustosità dei piatti. La zuppa di pomodoro e basilico è veramente appetitosa; buone anche le crocchette nell’insalata falafel, diverse da quelle di oggi ma altrettanto morbide, servite con senape; ottimo il pane affettato, che accompagna tutti i piatti. Per la birra, il gestore me ne consiglia una locale, la Brouwerij rossa (qui però la chiamano “ambrata”), che non è affatto male.
Un venticello piuttosto fresco si leva a rendere opportune le maniche lunghe che indossiamo, dopo che per tutta la giornata il caldo afoso ci ha fatti sudare. Al tavolo vicino, due sudamericani di colore parlano spagnolo fra loro e inglese con la cameriera (e con me, che raccatto un biglietto da visita caduto al primo arrivato di loro e glielo porgo). Si trasferiscono quindi all’interno, al riparo dalla brezza. Entriamo a pagare, in uno spazio tutto di legno come un saloon, e poi ci ritiriamo.
Nella notte, dalle finestre socchiuse della stanza sentiamo strida sincopate di gabbiani, rombo di auto e moto, sferragliare di treni, oltre al basso continuo, come un tuono prolungato, degli aerei in decollo.
Terza parte – Segue
Marco Grassano
Foto di M. Ester Grassano
Didascalie:
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- Case galleggianti nel canale
- Anatidi nello stagno
- Verso il mercato
- Giochi d’acqua