La fortuita coincidenza di una recente rilettura di C. E. Gadda induce lo scrivente a cogliere implausibili analogie fra il grande scrittore italiano e Antoine Volodine – inclassificabile (secondo opinione ampiamente diffusa e condivisa) autore francese che la migliore editoria italiana da un po’ di tempo sta portando in libreria.
Dallo gnommero gaddiano al disordine tardoumano di Antoine Volodine: più accanito il primo nella ricerca (anche stilistica) del dettaglio cifrato dentro a un microcosmo molte volte domestico e condominiale, assai ambizioso nel percorrere vaste coordinate geo-storiche (in certi casi fantapolitiche) il secondo (fino a scenari dissestati in cui all’uomo il tempo ha lasciato solo la possibilità del racconto – intesa come azione, alla Storia non resta molto da dire).
Entrambi approdano a una definizione abissale (più esplicitamente apocalittica nello scrittore francese) del caos quale sostanza del mondo, nascosto da ordini (di cui pure il primo sentiva un assoluto bisogno) fittizi. Di Volodine (accostato a Pessoa anche se, come qualche recensore ha fatto notare, nell’eteronimia di Volodine manca l’eterogeneità stilistica che nel portoghese distribuiva in maniera pertinente la moltitudine, Bolaño, Kafka, etc.) particolarmente interessanti due libri tradotti nelle ultime settimane: “Terminus radioso”, romanzo con cui ha vinto il PrixMédicis nel 2014, (66thand2nd, traduzione di Anna D’Elia), e “Angeli minori” (L’Orma Editore, traduzione di Albino Crovetto) – “oggetti” anche editorialmente belli e curatissimi (che senso ha oggi il cartaceo se non ne facciamo anche manufatti da custodire preziosamente?)
Per esaurire rapidamente – e non fuorviare il lettore – l’impressionistico parallelo fra il cogitabondo milanese e Volodine, si direbbe però che entrambi svelano come il mondo in cui viviamo, sia esso retto da tiranni priapei o da “tacchini socialdemocratici” sia un fantasmatico e posticcio frantume cosmico svuotato di senso.
Ma quello del francese è già oltre lo sfondamento di un naturalismo qualsiasi – come detto, le sue sono narrazioni distopiche, abitate da umani residuali che si muovono in un fondale apocalittico. Nel kolchoz di “Terminus radioso”, in un’immaginaria Seconda Unione Sovietica, l’umanità malata è il portato di una configurazione totalitaria; ma esauriti, sconnessi, folli, marginali lo sono in qualche modo tutti i personaggi di Volodine – sovente, gli scrittori stessi.
E – va da sé – i narratori: in “Angeli minori” 49 voci danno luogo ad altrettanti “narrat”, “brevi brani musicali la cui principale ragione d’essere è proprio la musica” secondo definizione dell’autore, o ancora “istantanee romanzesche”, oppure “immagini organizzate su cui si fermano nella loro erranza i miei mendicanti e i miei animali preferiti” – forse la vecchia, gloriosa dicitura di poemi in prosa può valere come generico orientamento almeno per questo libro.
Volodine è più visionario di tutti i nomi prima citati, inventore non a caso di una sedicente corrente letteraria denominata post-esotismo – “una letteratura partita dall’altrove e diretta verso l’altrove, una letteratura straniera che accoglie molteplici tendenze e correnti, di cui la maggior parte rifiuta l’avanguardismo sterile”.
Ammesso che vi siano scrittori a lui successivi inseribili in questa fantomatica corrente, il racconto di Volodine non riguarda mondi lontani ma foschi e sfagliati paesaggi di avanzi: umanità ridotta ai minimi termini, incerta anche della propria esistenza, soggiogata da una prigionia organizzata o da una interna immedicabile tara niente affatto eccezionale.
Balena senza cautele eccessive l’idea che in fondo è ciò che siamo (diventati), ciò che resta una volta strappato il velo di Maya all’ordine del mondo nel quale noi, lettori e non lettori, crediamo di vivere: si chiami capitalismo o altrimenti – che l’opera di Volodine adombri una riflessione sul potere è assai pacifico, ma in fondo l’incertezza esegetica sul suo lavoro è il miglior viatico alla sua forza e alla sua credibilità.
A ogni modo, si direbbe che più che narrare l’altrove, sia l’altrove stesso a parlarci. Deserti, steppe, enclave di sbandati e improbabili poeti che sopravvivono a sterminati immondezzai di rifiuti radioattivi, a immani pestilenze, a baratri di fosse comuni – di lì il corteo di voci strozzate, allucinazioni, deliri. Lo sfaldarsi – il gioco – della spettanza autoriale (scrittore, suoi eteronimi narratori, narratori inventati dai narratori) allestisce un caos interpretabile in vari modi (in “Terminus radioso” la scomposizione della linearità spazio-temporale complica ulteriormente la narrazione senza cadere nel vizio dell’illeggibilità tipico delle avanguardie sterili, anzi).
La letteratura emerge come un atto di resistenza allo sfacelo di una storia, quella umana, incapace di salvaguardare se stessa, di conservarsi come specie. O, al contrario, come la certificazione in un fallimento del reale che non lascia scampo a nessuno – se le maglie del racconto crollano, se non c’è più storia possiamo solo immaginarne altre riducendole a racconti di sogni, incubi, frammenti di discorso delle voci in scena. Sia prese singolarmente che come costellazione sbilenca e corale queste oscure narrazioni funzionano. Con buona pace dell’inutile “romanzo ben fatto” – prodotto ormai culturalmente inerte.
Michele Lupo
- Antoine Volodine
Terminus radioso
Traduzione di Anna D’Elia
66thand2nd
540 pagine, 20 €
www.66thand2nd.com -
Angeli minori
Traduzione di Albino Crovetto
L’Orma Editore
224 pagine, 15 €
www.lormaeditore.it