Mai prima tradotto integralmente, L’ebreo come paria (Giuntina) riunisce quattro brevi indagini di Hannah Arendt su altrettante figure-chiave della cultura ebraica, fra Otto e Novecento: Heinrich Heine, Bernard Lazare, Charlie Chaplin e Franz Kafka.
Ciò che li accomuna a detta della filosofa è l’indisponibilità a accettare il ruolo assegnato loro dai gentili: piuttosto che integrarsi “giocando al parvenu”, preferirono una (relativa?) emarginazione nel segno dell’autenticità. Ma lo fecero in maniera diversa.
Heine è letto come uno schlemihl (qualcuno ricorda lo straordinario libretto di Adelbert Von Chamisso?), una spensierata innocenza ne costituisce lo stigma – contrassegno di un ebraismo da indigenti, esclusi dal mondo che conta ma immuni “dal perpetuo senso di colpa” originato dal “peccato originale” (racconto veterotestamentario sì ma aggravato dall’ermeneutica cristiana).
Se questa joje de vivre rese popolare il poeta tedesco sarebbe interessante mettere a confronto la lettura che ne fa la Arendt con quella di chi in Heine ha visto i prodromi dell’intellettuale moderno.
[codice-adsense-float]Fuori da tale prospettiva fantastica, appare tutta politica la vicenda di Lazare, giornalista e anarchico (fu dalla parte di Dreyfus), che mirava a costruire nel popolo dei paria una consapevolezza da oppressi per poi ribaltarla nell’azione politica – una rivolta anche contro l’ebreo parvenu, individuato come una sorta di kapò della società generale.
Lazare (1865-1903) non vide lo scempio nazista, e non poteva immaginare che un ragazzetto non particolarmente dotato, Adolf Hitler, nel giro di secolo venisse a suo modo di dire “torturato” sui banchi di scuola, con ciò chissà meditando la delirante vendetta che nel turpe libello successivo avrebbe preparato le basi di un’educazione scolastica tutta avi, razza ed eroismo tedesco.
Nella scuola dei barbari – giusto il titolo di un saggio in ristampa della stessa casa editrice, autrice Erika Mann e prefazione del grande scrittore suo padre – non c’era posto per gli schlemihl di cui il sublime Charlot avrebbe riproposto l’immagine, privata però, scrive la Arendt, della sua imperturbabile gaiezza.
Se gli sbirri dei film chapliniani incarnano la legge implacabile dei dominatori, tutto, dall’aritmetica alla chimica alle canzoni, nella scuola nazista è proiettato a forgiare il militare dominio sul mondo (e gli esercizi, le addizioni e le sottrazioni si fanno con esempi sugli ebrei). L’educazione viene sostituita dalla propaganda – e dallo sport, prima disciplina obbligatoria.
A fronte di questa attitudine bellica, Charlot rappresenta “il sospettato” – lo è oggettivamente, non è una disposizione caratteriale sbagliata, la sua, è il piccolo uomo terrorizzato e perseguitato da un potere autoritario in cui masse di spettatori si sarebbero riconosciute. Se è vero che la fortuna a un certo punto gli avrebbe girato le spalle, in vita Franz Kafka non ne avrebbe mai avuta (come scrittore, s’intende).
Il suo (anti)eroe è “l’uomo di buona volontà”. Vorrebbe entrare nel Castello ma dinanzi all’insolente, imperscrutabile rifiuto che lo tiene a distanza, il protagonista finisce per percepirsi come “irreale”.
Occorre ricordare – ed è parte della sua grandezza – che in Kafka la tragedia dell’esclusione non ha nessuna possibilità di risarcimento estetico. La ricompensa della bohème allo scrittore praghese non interessa. La sua serietà è estrema, refrattaria alla consolazione insincera – e spesso vile – dell’ironia.
Se per il suo uomo si dà una possibilità di accedere al Castello, egli deve poterlo fare con la pienezza della sua – benché povera – verità.
In forza insomma di una totale uguaglianza, quella che mai vorranno concedergli. “Una vita semplice e decente”, da “uomo che vive tra gli uomini, senza sfinirsi”, questo, scrive la Arendt lettrice di Kafka, all’ebreo paria è oggi propriamente impossibile.
Michele Lupo
- Hannah Arendt
L’ebreo come paria
Giuntina
2017 - Erika Mann
La scuola dei barbari (L’educazione della gioventù nel Terzo Reich)
Giuntina
1997