Col beneficio del dubbio: quando leggi Mingus sai che non sai se devi credergli o no. Magari finisci, sbagliando, per non credergli mai. Così ti affidi a John F. Goodman, giornalista americano che riuscì a intervistarlo più volte, e in maniera distesa persino, nei primi anni Settanta: uno, Goodman, che era il primo a sapere quante fole fosse in grado di raccontare Charles Mingus, e quante ne avesse già dette nell’autobiografia Peggio di un bastardo. Non che poi metteresti la mano sul fuoco su ogni parola di questo libro ma l’impressione generale è che qui il grande musicista lo troviamo quasi al netto dell’egolatrica fantasmatizzazione di se stesso con cui amava rappresentarsi.
Così, che Mingus fosse un tipastro, un paranoico di una collerica, travolgente vitalità, incapace di starsene quieto con la sua musica e morta lì, non è faccenda da discutere. Tuttavia, a parte le chiacchiere sulle vicende più o meno esagerate più o meno pazzesche (perché vere) della sua biografia, per fortuna possiamo trovare dell’altro in questo libro densissimo e appassionante, Mingus secondo Mingus, interviste sulla vita e la musica, interviste che Goodman gli sottopose fra il 1972 e il 1974.
L’altro che cattura è fatto di motivi artistici, formali, persino tecnici. L’eccezionale musicista in rotta con il mondo, che fa a cazzotti con i compagni di lavoro, i discografici e la critica, offre per esempio stimoli importanti per ripensare una stagione gloriosa della moderna storia musicale – che ormai necessiterebbe di un inquadramento storiografico più analitico per delineare meno sommariamente i percorsi, le direzioni, gli orientamenti: una stagione, per dire, in cui termini come free e avanguardia andrebbero indagati più a fondo.
Si veda appunto il rapporto tutt’altro che pacifico di Mingus non solo con queste etichette (“Io non sono d’avanguardia, proprio per niente. Non lancio rose e sassi e non tiro colori su una tela” dice a Goodman riferendogli il giudizio di un critico che lo inquadrava nell’avanguardia) ma con diversi musicisti dell’epoca (a cominciare da Ornette Coleman per finire col sarcasmo sul globale progetto New Thing).
Se non sorprende che un grande artista disconosca (non comprenda) l’importanza di alcuni suoi pari, che si compiaccia delle proprie idiosincrasie (gli strumenti elettrici…), merita di essere notato l’orgoglioso fastidio di un musicista a suo modo classico (strumentista di cui tutti sanno la grandezza e devoto cultore di big band – Duke Ellington il suo profeta) che in odio a qualsiasi astrattezza post-artigianale non concepisce come si possa non saper suonare, che detesta la superficialità e le scorciatoie (i musicisti rock’n’roll sono sul gradino più basso della scala: “non hanno ancora imparato a soffiarsi il naso”), che lucidamente coglie le contraddizioni di un approccio ideologicamente segnato al fatto musicale (come fanno gli avanguardisti a sperare di avvicinarsi al “popolo nero” mediante una musica come la loro?, come fanno a riempirsi la bocca della parola “Africa”?).
Le faceva e le sparava grosse il vulcanico Mingus, ma non era solo un grandissimo musicista: sapeva quello che diceva e non era raro che avesse ragioni da vendere.
Michele Lupo
John F. Goodman
Mingus secondo Mingus
Interviste sulla vita e la musica
Minimum Fax
Traduzione di Michele Piumini
482 pagine, 18 €