Settanta anni fa, per la precisione l’11 marzo del 1944, aerei alleati sganciarono centinaia di bombe sulla città di Padova, provocando, oltre a vittime umane, ingenti danni alla chiesa degli Eremitani, con la quasi totale distruzione della splendida Cappella Ovetari, affrescata tra gli altri da Andrea Mantegna. Si è appena conclusa, a Palazzo Zuckermann, una mostra organizzata per ricordare l’anniversario del funesto avvenimento. Tra le fotografie che documentavano lo stato del monumento prima e dopo il bombardamento, c’era anche la prima pagina di un giornale dell’epoca, su cui la propaganda della Repubblica Sociale aveva gioco facile nel sottolineare, con macabra ironia, i risultati dell’intervento dei “liberatori”: un cumulo di macerie.
“Il rapporto fra la guerra e l’arte, a un primo sguardo, è quello del carnefice con la vittima”, scrive Sergio Romano all’inizio del suo breve libro L’arte in guerra, edito da Skira nella collana SMS. Dura, spietata, avida la prima; fragile, indifesa e ambita la seconda. L’autore è un liberale di vecchio stampo con scarse simpatie per la Rivoluzione Francese, come si evince anche in queste pagine, in cui contrappone due modi di salvaguardare e “comunicare” l’arte. Il corifeo di una è Dominique Vivant Denon, artista e letterato di secondo piano ma fine intellettuale e soprattutto grande organizzatore. È stato definito l’“occhio di Napoleone” perché del generale, poi console e infine imperatore fu il consigliere più ascoltato in fatto d’arte: lo accompagnò nella campagna d’Egitto, memorabile almeno dal punto di vista culturale, e rifondò il Louvre per sua (di Napoleone) maggiore gloria, associandovi per sempre anche il proprio nome. E come vi riuscì? Facendo la spesa nelle chiese, nei conventi, nei palazzi e nei castelli di mezza Europa, spesso dimenticandosi di pagare il conto. Prendeva di tutto: arazzi, dipinti, statue, manoscritti, purché di primissima qualità e utili a formare le future generazioni di liberi cittadini, naturalmente francesi. Il Louvre doveva diventare il museo più importante del mondo (e lo è diventato, come dimostrano i 9 milioni di visitatori all’anno), nonché una scuola di gusto e lo scrigno dei tesori più preziosi della storia dell’arte.
Sull’altro versante campeggia Antoine Chrysostome Quatremère de Quincy che negli anni convulsi della Rivoluzione rischiò di perdere – letteralmente – la testa per le sue posizioni filomonarchiche. Costui sosteneva che le opere d’arte si possono comprendere appieno soltanto nel contesto per cui sono state concepite e realizzate. Una posizione, potremmo dire, “conservatrice”: sicuramente fondata e sensata, ma nei fatti ingenua perché carente di realismo. La storia è lì a dimostrare che le opere d’arte si muovono al seguito degli eserciti. Aver scelto Vivant Denon e Napoleone come simboli della rapacità dei potenti verso l’arte, vittima di guerra, rivela – se ce ne fosse stato bisogno – la posizione ideologica di Romano. Ma proprio il Louvre conserva memoria di una prassi antica come la civiltà. Tra le sue collezioni, infatti, custodisce pezzi già predati nell’antichità, che hanno viaggiato su e giù per il Mediterraneo (nel senso più ampio che dava al termine Braudel), al seguito di conquistatori desiderosi di metter le mani su quanto di più bello avevano realizzato i propri nemici.
Su questo punto s’intrecciano due fili che però sarebbe bene cercare di tenere il più possibile distinti, mentre a mio avviso Romano tende a confondere: un conto sono le opere d’arte, realizzate per essere apprezzate come tali; un altro sono invece monumenti e manufatti realizzati con fini propagandistici che noi contemporanei consideriamo “arte” principalmente per la loro antichità. I cittadini del Parigi sbastigliato arrivarono ad abbattere le statue della facciata di Notre Dame perché avevano fatto un’equazione tra i sovrani dell’antico Israele e quelli regnanti in Francia, ma era la stessa equazione che avevano avuto in mente i committenti: soltanto era cambiato il valore ideologico. Più un’opera d’arte s’identifica con una parte politica, religiosa o sociale, più corre il pericolo di finire decapitata. Se invece è “soltanto” bella e preziosa, rischia di cambiare proprietario senza che il precedente ne manifesti la volontà. O di finire sotto un bombardamento. Anche al giorno d’oggi, quando le bombe si sono fatte “intelligenti”.
Saul Stucchi
Nella foto: gli affreschi della Cappella Ovetari realizzati da Andrea Mantegna. Nella parte superiore si vedono i frammenti superstiti, ricomposti nel complesso restauro del 2006. In quella inferiore si intravedono le scene scampate al bombardamento del 1944 perché staccate in precedenza.
Sergio Romano
L’arte in guerra
Skira
collana SMS Skira Mini Saggi
2013, 88 pagine, 9 €